Non trasformiamo lo sport in un esercizio di politicamente corretto

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Non trasformiamo lo sport in un esercizio di politicamente corretto

24 Aprile 2009

Confronti. In Italia si sono riaperti i giochi attorno alla questione razzismo, che forse razzismo non è (sostiene José Mourinho: «È solo un modo ignorante di dimostrare dissenso nei confronti di un avversario, antipatico perché ti fa gol»). Qui Stadio Olimpico di Torino a voi studio, studio del fenomeno patologico della mentalità ultras. Nel mentre in Inghilterra si continua comunque a tenere in esercizio un plasticissimo, e tonico, pregiudizio anti-italiano e  anti-romano. Contro la designazione dell’altro Stadio Olimpico, di quello capitolino, quale sede la più idonea a ospitare la prossima finale di Uefa Champions League, in programma a Roma mercoledì 27 maggio. Sugli spalti i tifosi di almeno una squadra britannica, se non di due. Tutti onesti cittadini viaggiatori gentili, ci mancherebbe, eppure esposti al rischio di subire aggressioni e addirittura accoltellamenti, certo ad opera di selvaggi locali. «Unfit», così la stampa inglese – ma non l’Economist – descrivono ancora la Città eterna, s’intende eternamente «pericolosa».

E nel mentre nel mondo dello sport nel mondo impazza una corsa sfrenata al correttismo politico e istituzionale, applicato alle discipline più disparate: magari il pugilato, il nuoto sincronizzato, il salto con gli sci. Una partita culturale, anzi ideologica, con in palio l’affermazione per legge (da cui la piaga della legge dello Stato o dell’Unione di stati o di altri organismi internazionali, nelle pieghe dei regolamenti tecnici) della paura di non discriminare, anche qui: per esempio le donne che desiderano tanto incrociare i guantoni, i maschietti che aspirano a danzare in piscina, altre donne che invocano la parità dei sessi, pardon dei generi, giù dal trampolino olimpico. Perché, il Cio Comitato olimpico internazionale non è forse sessista, se non inserisce nel programma dei Giochi di Vancouver, febbraio 2010, il salto con gli sci femminile? Calcolando una ripartizione democratica fifty-fifty della pista, assegnata al 50% (quota rosa) alle poche professioniste della specialità. Specialità prettamente maschile e dunque maschilista, si deduce.

Ma poi succede che al confronto serio tra le buone, smisurate intenzioni dell’anti-razzismo e delle pari opportunità e la realtà ristretta dello sport e del suo campo d’azione (con le sue regole del gioco e le sue cattivi abitudini) il risultato dell’operazione sfiora il ridicolo. E allora il giudice sportivo che giustamente sanziona «deplorevoli comportamenti che nulla hanno a che vedere con la passione sportiva», prende atto «dell’assenza di qualsiasi manifestazione dissociativa da parte di altri sostenitori ovvero di interventi dissuasivi da parte della società». Come se spettasse al presidente di un club in persona dirigere il coro della curva, oltre che censurarne la volgarità.

E allora sul tavolo del Cio e delle federazioni nazionali, continuano a depositarsi sentenze su sentenze di corti civili, federali, supreme che richiamano gli enti suddetti precisamente a fare il proprio dovere democratico e oltre, molto oltre. Come se il diritto universale all’integrazione o alla partecipazione, evocato astrattamente, non calpestasse in realtà la mera logica delle competizioni, per la quale si stabiliscono vincitori e perdenti, promossi ed esclusi. Come se la suddivisione degli atleti in categorie, per sesso, per età, peso, appartenenza geografica, livello d’abilità e d’esperienza, costituisse un attentato all’egualitarismo. Però lo sport è diverso. E chi può, salvaguardi per tempo la sua autonomia.