Nord Corea, è sfida tra Usa e Cina
29 Febbraio 2008
Lo
stallo del negoziato sul nucleare nord-coreano è stato al centro delle
discussioni affrontate dal segretario di Stato Usa Condoleezza Rice durante la
sua missione in Estremo Oriente. La quattro giorni di visita è cominciata a
Seul lunedì 25 febbraio, quando la
Rice ha presenziato alla cerimonia di insediamento del nuovo
presidente sud-coreano Lee Myung-bak ed è proseguita per Pechino e Tokyo.
Il
nodo della questione è il rispetto da parte nord-coreana dell’accordo di
Pechino del 13 febbraio 2007, maturato nella cornice multilaterale dei Colloqui
a Sei fra Usa, Cina, Giappone, Russia e le due Coree. In conformità alle sue
clausole, il regime di Pyongyang si è impegnato a disarmare il proprio
dispositivo nucleare in cambio di aiuti energetici. Alla prima fase del
processo è stata data esecuzione con lo spegnimento del reattore nucleare di
Yongbyon (l’unico capace di produrre armi nucleari). Come contropartita i
nord-coreani hanno ottenuto una prima fornitura di 50 mila tonnellate di
petrolio grezzo. La seconda, ancora da completare, prevede che il regime veterocomunista
disattivi l’impianto stesso e presenti una dichiarazione esaustiva sul suo
programma nucleare, a cui seguirebbe un’ulteriore fornitura di carburante pari
a 950 mila tonnellate. Il cerchio si dovrà infine chiudere con il completo
smantellamento del reattore di Yongbyon.
La
fase due si sarebbe dovuta concludere entro il 31 dicembre scorso, ma la Corea del Nord non ha ancora
fornito indicazioni su quanto plutonio ha finora accumulato, sulla natura del
suo presunto programma di arricchimento dell’uranio e sulle accuse di
proliferazione. In particolare, il regime di Kim Jong-il pare riluttante a
fornire chiarimenti su quest’ultimo punto, che gli Stati Uniti considerano il
più importante. Sono forti i timori a Washington che i nord-coreani in questi
anni abbiano trasferito tecnologia nucleare a Paesi come la Siria, sospettati di
condurre programmi nucleari segreti.
Ma
anche la disattivazione dell’impianto di Yongbyon procede a rilento. Il governo
nord-coreano si difende ribaltando le accuse: i ritardi sarebbero da attribuire
al mancato rispetto degli accordi da parte degli altri contraenti, soprattutto
per quanto concerne l’erogazione degli aiuti energetici.
La Rice ha definito l’incontro con il
presidente cinese Hu Jintao “costruttivo”, anche se non ha specificato quale
siano state le soluzioni esaminate per rianimare il processo. Data la
delicatezza della fase in corso, ha precisato che i ritardi nord-coreani
nell’implementazione dell’accordo del febbraio 2007 non preoccupano per il
momento Washington. L’ottimismo sulla volontà di Pyongyang a collaborare è
alimentato dal fatto che gli osservatori americani continuano ad avere accesso
al sito nucleare di Yongbyon.
Ciò
che il segretario di Stato americano ha voluto sottolineare è che gli attuali
sforzi diplomatici devono essere spesi per ispirare fiducia tra le parti,
perchè ciascun contraente sia messo nelle condizioni migliori per poter dare
effettiva esecuzione agli impegni sottoscritti. Dal canto suo, Hu ha promesso
che la Cina
continuerà a esercitare tutta la sua influenza sulla Corea del Nord, perché si
giunga al più presto a una soluzione della crisi.
Cristopher
Hill (il capo-negoziatore americano per la crisi nord-coreana) si è trattenuto
a Pechino per un round di colloqui supplementare, prima di ripartire giovedì 28
per il sud-est asiatico. Nelle ultime ore, fonti ufficiali anonime hanno
parlato alla Reuters della possibilità che Hill ritorni a Pechino nel weekend
per incontrarsi con la sua controparte nord-coreana, Kim Kye-gwan. Per
sbloccare la situazione, gli Stati Uniti potrebbero offrire a Pyongyang
l’impegno a non rendere pubblica la dichiarazione sul suo programma nucleare.
Per la Rice è stato più delicato il
confronto con le autorità nipponiche. Queste hanno sempre considerato con
sospetto l’accordo di Pechino: a Tokyo non si fidano di Kim Jong-il. I timori
del Giappone non riguardano solo questioni di sicurezza nazionale, ma anche
l’annosa disputa sui propri cittadini rapiti dai nord-coreani negli anni
Settanta e Ottanta, che il governo giapponese considera forse più importante
dello stesso processo di disarmo nucleare della Corea del Nord.
Sull’argomento
la Rice ha
espresso il sostegno americano, ma ha anche precisato che l’eventuale rimozione
di Pyongyang dalla lista degli ‘Stati canaglia sponsor del terrore’ e la
cancellazione delle sanzioni previste dal Trading with the Enemy Act saranno
subordinate solo al completamento dell’attuale fase di denuclearizzazione. Le
autorità nipponiche temono poi che sulle ali del negoziato in corso possa
nascere un asse diretto tra Washington e Pechino, che rischierebbe di rendere
il Paese strategicamente irrilevante.
La crisi
sul nucleare nord-coreano scoppiò nel 2002, quando l’intelligence americana
accusò il regime di Pyongyang di condurre un programma segreto in aperta violazione
dei precedenti accordi stipulati con gli Usa in materia e assunti nel rispetto
del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Nel 1994 il regime
nord-coreano e l’amministrazione Clinton siglarono un accordo secondo il quale
gli Stati Uniti avrebbero costruito in Corea del Nord alcuni reattori ad acqua
leggera per far fronte alla vasta crisi energetica (e umanitaria) che
imperversava allora nel Paese asiatico. Pyongyang in cambio si impegnò
esplicitamente alla non-proliferazione.
Nel
settembre 2005, dopo oltre due anni di trattative nel quadro dei Colloqui a Sei,
si raggiunse una intesa di principio, che prevedeva l’abbandono del programma
nucleare da parte della Corea del Nord in cambio di aiuti energetici e alimentari.
L’assenso nord-coreano a questo accordo durò lo spazio di due mesi, dopo che gli
Usa congelarono alcuni conti bancari del regime di Pyongyang a Macao,
accusandolo di essere impegnato in operazioni di riciclaggio di denaro sporco e
falsificazione di dollari. La tensione raggiunse il suo acme il 9 ottobre 2006,
quando la Corea
del Nord dichiarò di aver fatto deflagrare un ordigno nucleare all’interno di
una vecchia miniera nel nord-est del Paese (azione immediatamente condannata
dalla risoluzione 1718 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).
La
risoluzione della crisi nord-coreana ha una valenza strategica in Asia Orientale
e si gioca sulla sopravvivenza o meno del regime di Kim Jong-il. Influirà
sull’evoluzione delle relazioni diplomatiche tra Washington e Pyongyang, sul processo
di riunificazione della penisola coreana che ristagna ormai da oltre 50 anni,
sulle relazioni nippo-americane e, soprattutto, sui rapporti tra Usa e Cina,
alla luce della sfida lanciata dal colosso cinese alla egemonia americana nella
regione.
Fino
all’accordo di Pechino, l’amministrazione Bush ha sposato l’atteggiamento
intransigente del Giappone, che ha sempre considerato ricattatoria la politica
di Kim Jong-il. Non sono pochi coloro che riconducono i ‘colpi di testa’ del
leader nord-coreano a una tattica di ‘brinkmanship’, tesa ad alzare
continuamente la tensione per ottenere alla fine concessioni (politiche,
economiche, ecc.). Una posizione che accomuna ad esempio il regime di Pyongyang
a quello di Teheran.
Molti
si chiedono cosa abbia spinto Washington a cambiare il proprio orientamento nei
confronti della Corea del Nord. Una prima risposta è che gli Usa, impegnati in
un ipertrofico sforzo militare in Medio Oriente, non possono permettersi di
mantenere aperto un fronte spinoso come quello nord-coreano. I conflitti in
Iraq e Afghanistan stanno drenando risorse militari dal Comando del Pacifico:
dal 2005 è cominciata una riduzione del contingente militare americano in Corea
del Sud, che dovrebbe completarsi entro la fine del 2012. Una seconda corrente
di pensiero sostiene che gli Usa avrebbero avviato il disgelo con la Corea del Nord per impedire
che questa finisca completamente nell’orbita della Cina, divenendone una sorta
di colonia. Controllare la Corea
del Nord significherebbe orientare il processo di riunificazione della penisola
e quindi acquisire una posizione centrale nella regione.
Secondo
alcuni, invece, nella crisi in corso gli Stati Uniti sarebbero impegnati a mantenere
lo status quo attuale. Le motivazioni addotte non sono dissimili da quelle alla
base del rifiuto dell’indipendenza di Taiwan: tenere sotto pressione la Cina, perpetuare la propria
presenza militare nella regione e continuare a legare a sé i destini di Seul e
Tokyo. Washington non esclude che Corea del Sud e Giappone, in un futuro non
troppo lontano, possano accostarsi a Pechino per modificare l’odierno quadro
geopolitico regionale. Lo spettro da esorcizzare è la comunità dell’Asia
Orientale, un progetto a cui non è indifferente il primo ministro giapponese
Yasuo Fukuda, che gli Usa vedono come fumo negli occhi, perché limiterebbe o
addirittura annullerebbe il peso americano in Estremo Oriente, per favorire la
nascita di un sistema con una chiara impronta sino-centrica.
La
linea della distensione sembra al momento dominare la scena della crisi. Quanto
accaduto nei giorni scorsi, con la performance a Pyongyang dell’Orchestra
Filarmonica di New York, è indicativo dell’atmosfera che si vive nelle
relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord. Un evento il cui valore è stato
minimizzato dall’amministrazione Bush, ma che ad alcuni osservatori ricorda la
‘diplomazia del ping-pong’, con la quale Richard Nixon e Henry Kissinger nel
1971 aprirono il Paese al dialogo con la Cina popolare.
A
mescolare un po’ le carte nella contesa è giunta l’ascesa al potere in Corea
del Sud del conservatore Lee Myung-bak, che potenzialmente modifica gli
equilibri all’interno dei Colloqui a Sei. Il neo-presidente sud-coreano ha dichiarato
di volersi affrancare dalla ‘sunshine policy’ promossa dai suoi due
predecessori progressisti (Kim Dae-jung, che la inaugurò nel 2000, e Roh Moo-hyun).
Negli
ultimi sette anni, la sunshine policy ha privilegiato la soluzione della crisi
intercoreana rispetto a quella sul nucleare: sarebbe stata la riunificazione a
risolvere ogni contenzioso con Pyongyang. Nei progetti di Lee Myung-bak, invece,
le aperture al regime di Kim Jong-il dovranno essere subordinate a un effettivo
impegno di questo alla denuclearizzazione (e alla riforma del sistema
economico). Una posizione che rompe l’asse formato dai precedenti governi
progressisti di Seul con Pechino e Mosca (più inclini alla negoziazione a
oltranza con la Corea
del Nord), che ha creato non poche tensioni con gli Stati Uniti.
La Rice non si è fatta sedurre dalle
opportunità che sono sorte dall’elezione di Lee Myung-bak, mantenendo un tono
soft per tutta la missione. In un incontro con la stampa nipponica ha inoltre
manifestato apprezzamento per la formula dei Colloqui a Sei, che a suo dire
presenterebbe le potenzialità per trasformarsi in un canale permanente di cooperazione
regionale in Estremo Oriente. “Avremmo potuto percorrere vie differenti per
affrontare questa crisi. Invece, il dossier sul nucleare nord-coreano è
divenuto un esempio di cooperazione tra le potenze dell’area”, ha dichiarato il
segretario di Stato Usa.
Ciò
che alla Rice sfugge è che la promozione di questo strumento diplomatico
rischia di concorrere al declino dell’egemonia americana nell’area. Come ha
evidenziato Yoichi Funabashi, gli Stati Uniti hanno concepito il framework dei
Colloqui a Sei per impegnare la
Cina nella crisi, spingendola a esercitare un maggior
controllo sulla Corea del Nord. La sorpresa è che questo consesso nel tempo si
è trasformato in un foro di dialogo multipolare, nel quale Pechino ha acquisito
una posizione quasi preponderante e Washington spesso si è trovata in
minoranza.