Norvegia e il processo Breivik: il doloroso viaggio di una nazione
17 Maggio 2012
Il processo ad Anders Behring Breivik è cominciato da poco più di un mese. Sul banco degli imputati c’è l’uomo che lo scorso 22 Luglio tra Oslo e Utøya ha ucciso settantasette persone. Un intero paese, la Norvegia, trattiene il fiato da settimane. Sul Corriere della Sera del 17 Aprile scorso lo scrittore Erik Fosnes Hansen lo aveva anticipato: “questo processo sarà un lungo viaggio”. Un lungo viaggio, la Norvegia, lo sta facendo davvero. Un viaggio prima di tutto nel dolore. Perché al di là delle moltissime analisi su ciò che è oggi il paese e su come settantasette morti l’hanno o non l’hanno cambiato, il processo a Breivik continua ad essere soprattutto un viaggio emozionale.
La prima settimana è stata terribile. Breivik voleva il processo e se l’è preso tutto. Sorrisi, sguardi gelidi, una sicurezza spiazzante. Ha dettato tempi e modi. Ha graffiato con dichiarazioni agghiaccianti. “Rifarei tutto di nuovo” ha spiegato. “Qualcuno si fingeva morto, per questo gli davo il colpo di grazia”. Gli è dispiaciuto non aver lasciato più corpi sul terreno: “L’obiettivo non era uccidere 69 persone, l’obiettivo era ucciderli tutti”. Sull’isola c’erano circa 600 persone. Era il sogno di tutta una vita, ha confessato. Un progetto al quale lavorava dal 2006. Allenandosi con i videogiochi. “Ero quasi terrorizzato” ha ammesso, “non avevo veramente voglia di farlo. Uccidere la prima persona è stato estremamente difficile, quasi impossibile. Poi è diventato tutto più semplice”. Sull’isola di Utøya ha lasciato a terra 35 donne e 34 uomini: età compresa tra i 14 e i 52 anni, per lo più minorenni. L’omicidio di massa difeso e raccontato con orgoglio dal pluri-omicida: “Ho portato a termine il più sofisticato e spettacolare attacco politico mai commesso in Europa sin dai tempi della seconda guerra mondiale”.
Per un’intera settimana la Norvegia ha ascoltato queste parole. Ole Eivind Henden, uno dei commentatori di NRK, ha definito i primi giorni uno sforzo tremendo per il paese. Non che quelli successivi siano stati più leggeri. È toccato alle relazioni dettagliate del medico legale. Poi hanno parlato i sopravvissuti, quelli che negli occhi portano ancora il ricordo di quel pomeriggio d’estate. Non sono mancati passaggi crudi: telefonate alla polizia di ragazzi che chiedevano aiuto, col sottofondo di colpi d’arma da fuoco; immagini e fotografie della strage; la descrizione delle ferite mortali. In aula le lacrime sono una costante. Piangono gli avvocati. Piangono i parenti delle vittime. Da metà aprile il paese va a dormire con la consapevolezza che il giorno a seguire potrebbe essere peggiore. È un supplizio soprattutto per i parenti delle vittime presenti in aula.
“Terribile, triste, raccapricciante”: usano questi aggettivi i genitori che assistono alle udienze. Eppure, mentre intorno a lui la tensione e il dolore sono palpabili, Breivik non ha mostrato alcuna reazione. In tanti hanno scrutato il suo volto in attesa di un cedimento, di un’emozione, di qualcosa: niente. Si fatica a capirci qualcosa, di Breivik. Quel che invece è chiaro, è che disprezza ciò che ha intorno. Lo ha detto lui stesso. “Il carcere non mi spaventa, io sono nato in una prigione in cui non è possibile esprimere liberamente le proprie opinioni: questa prigione è la Norvegia”. Non solo. Ha parlato anche della condanna che rischia di dover affrontare: 21 anni di carcere quale pena massima in un paese che l’ultima esecuzione capitale in tempo di pace l’ha eseguita nel 1876. Anche su questo Breivik ha voluto dire la sua: “Non voglio essere condannato a morte”, ha spiegato, “ma rispetterei questa decisione. Non riconosco la pena di 21 anni di carcere, sarebbe una sentenza ridicola”.
La Norvegia da settimane vive stretta tra dolore, dubbi e frasi che è difficile mandar giù. Tutto questo lo sta vivendo per assicurare a Breivik un processo normale, cosa che è equivalsa a concedergli il palcoscenico che desiderava. Tanto che una delle domande più frequenti è stata: questo teatro dell’assurdo merita di essere trasmesso in mondovisione? Secondo alcuni, Breivik tutta questa attenzione non la merita. Janne Haaland Matlary, docente di scienze politiche, è convinta che Breivik sia poco interessante dal punto di vista storico e ideologico. Perché affannarsi ad analizzare minuziosamente un personaggio che non ha nulla da proporre? Se l’è chiesto anche la scrittrice Åsne Seierstad: “Tutto sembra procedere alla grande secondo il suo piano” ha criticato: “un palcoscenico, un pulpito, un pubblico incantato, con taccuino e penna in mano”.
Argomenti simili arrivano pure e soprattutto dall’estero dove sono in tanti a non capire la necessità di una decina di settimane di processo: perché tanto clamore per un caso chiarissimo? Perché tante parole per un reo confesso? E soprattutto: perché consentire a un terrorista di divulgare liberamente la sua ideologia dandogli esattamente quella visibilità che cerca? Altri invece hanno lodato la lucida neutralità della Norvegia. E anche nel paese la maggior parte della gente ritiene che il processo debba svolgersi nel modo più corretto possibile. Deve essere un procedimento inappuntabile secondo il principio che è la legge a dover prevalere, lo stato di diritto quale emanazione primaria della democrazia. È un processo, non una vendetta.
Stordita da questo gigantesco uragano di emozioni e dubbi, la Norvegia fino a oggi non ha praticamente avuto tempo di guardarsi dentro. Come se tutto fosse accaduto di nuovo. La Norvegia è del resto un paese ancora sotto shock. È un paese dove molti dei sopravvissuti di Utøya non riescono più né a lavorare né a studiare. È un paese dove tanti dipendenti pubblici degli uffici ministeriali ancora faticano a sentirsi al sicuro sul posto di lavoro. È soprattutto un paese che non capisce il perché di quello che è successo. Unni Espeland Marcussen, genitore come tanti che a Utøya ha perso una figlia, al quotidiano Dagbladet ha detto: “Se Andrine fosse morta in un incidente stradale, o per una malattia, avrei potuto capire. Ma quello che è successo è totalmente privo di senso”. La Norvegia è un paese dove si sente ripetere spesso che il 22 Luglio è stato qualcosa di talmente grande che non c’è famiglia che in un modo o nell’altro non sia stata colpita direttamente. È un’esagerazione, certo, ma rende bene l’idea di una tragedia collettiva.
Fine prima puntata. Continua…