Novant’anni di menzogne e mistificazione della storia
07 Novembre 2007
I teatri sono affollati. Fëdor Šaljapin,
una specie di Pavarotti dell’epoca, canta all’opera nel Don Carlos. Tamara Karsavina danza per la prima volta ne La bambola. Tra la gente a passeggio per
le animate ma tranquille strade di Pietrogrado, un uomo prende il tram per
raggiungere l’istituto Smol’nyj, quartier generale del Soviet ormai dominato dai bolscevichi. È travisato con una parrucca
che ne nasconde l’accentuata calvizie. È stato nascosto per quattro giorni, ma
ora decide d’intervenire, mentre quasi nell’indifferenza generale le guardie
rosse, su mandato del comitato militare del Soviet
di Pietrogrado, s’impossessano senza colpo ferire della centrale telegrafica,
di alcuni ponti, e della stazione ferroviaria del Baltico. Lenin ancora lo ignora
– e perciò si rende irriconoscibile, temendo di poter essere arrestato dai
fedeli al governo provvisorio, il cui potere in realtà è ormai dissolto come
l’intero apparato dello Stato –, ma quando giunge allo Smol’nyj non esita a
prendere le redini dell’azione, e a darle impulso.
Nel mondo è la sera del 6
novembre 1917, in
Russia – il cui orologio è «indietro» di tredici giorni, essendo regolato
ancora sul calendario giuliano – è il 24 ottobre. Il giorno dopo, una scarica a
salve dell’incrociatore Aurora dà il
segnale. Qualche colpo d’artiglieria, due o tre, raggiunge il Palazzo
d’Inverno, sede del governo provvisorio, presidiato da un battaglione di
allievi ufficiali e da uno femminile. Le guardie rosse s’introducono a piccoli
gruppi nel Palazzo, e vengono disarmate e fatte prigioniere. Quando però i
prigionieri diventano troppo numerosi, s’invertono i ruoli, ed i membri del
governo provvisorio vengono arrestati. Alle 14:04 del 7 novembre 1917, con un
telegramma, viene annunciato a Lenin che il Palazzo d’Inverno, luogo insieme
sede simbolica e reale del potere, è stato preso. Il traffico continua a
scorrere tranquillo, non v’è traccia di masse che invadono le piazze.
La definizione di «Rivoluzione d’Ottobre»
– con la quale inizia un capitolo della storia
universale scritto con il sangue –, dunque, è due volte un falso in
«atto storico»: non è una rivoluzione, bensì un golpe; non accade in ottobre, ma in novembre. Queste, tuttavia sono
menzogne innocenti rispetto a quelle che caratterizzeranno – in evidente
coerenza con il suo esordio – la vicenda storica dell’entità che ne scaturisce,
l’Unione Sovietica e l’impero socialcomunista. Prima fra tutte la menzogna, che
tutt’ora qualcuno accredita, che vuole il comunismo un generoso, ma tradito, ideale di liberazione e promozione
dell’uomo.
Ed alla menzogna, pure fin da subito, si
affiancherà l’omicidio, pianificato e praticato su scala industriale, che avrà
la speciale caratteristica di estendersi dai corpi alle anime, devastate da
decenni di oppressione, terrore, miseria, privazione delle più elementari
libertà e della stessa dignità dell’uomo. Infatti, coerentemente con il suo essenziale
ateismo, il comunismo nega che l’uomo sia imago
Dei e lo riduce a momento dell’evoluzione e ad ingranaggio della produzione
e dello sviluppo economico. La catastrofe antropologica – provocata dal
relativismo nichilista proprio di un’ideo-logia che negando Dio nega l’idea
stessa di verità e di senso – è, forse più delle stragi che pure si calcolano
nella spaventosa misura di decine di milioni di vittime (probabilmente ben più
di cento milioni), la cifra vera della storia del comunismo e la sua attuale
eredità.
Lenin l’aveva annunciato – ed in questo
senso il mito della Rivoluzione cessa di essere tale ed il termine usato dice
il vero –: «Una rivoluzione è certamente
la cosa più autoritaria che vi sia; […]
e il partito vittorioso […] deve
continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano ai reazionari».
Ed affinché nessuno s’illudesse o equivocasse, aveva
provveduto a chiarire che il potere bolscevico sarebbe stato «illimitato, non circoscritto da alcuna
legge […], direttamente fondato sulla
violenza». E così fu. «Reazionari» e «nemici del popolo» furono
dichiarati, e perciò privati della vita o della libertà, tutti coloro che non
corrispondevano alla fisionomia dell’«uomo nuovo» delineata dall’ideologia,
nonché i capri espiatori degl’inevitabili fallimenti del sistema, costruito utopisticamente
contro natura, cioè contro la religione, la famiglia e la proprietà, le
autentiche architravi di ogni edificio sociale che tenga conto della natura
umana.
Ricorre oggi, 7 novembre, il novantesimo
anniversario dell’inizio di un regime «sconosciuto all’umanità», perché prima di
esso, come scrive il grandissimo storico ex comunista François Furet, «nessuno Stato al mondo s’è mai dato
l’obiettivo di uccidere i propri cittadini o di asservirli», come invece ha
fatto per settant’anni l’ URSS. Nessuno Stato al mondo
prima aveva recintato il proprio territorio ed i propri domini non per impedire
invasioni, ma per impedire evasioni, così costituendosi come «prigione dei
popoli» (secondo Alain Besançon, nell’URSS il Gulag era il campo di
concentramento a regime duro, il resto del territorio quello a regime ordinario).
Mai prima, sostiene lo storico Bruce Lincoln, «una società […] aveva ucciso
i propri componenti con tanta disinvoltura e per ragioni così diverse».
Tutto questo perché, dice l’oppositore al regime sovietico e scrittore Vladimir
Maksimov, «senza esserne cosciente,
l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze
sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura». Altro che «generosa
utopia»: l’utopia, proprio in quanto tale, è perversa e nemica dell’uomo, come
la storia del comunismo ha dimostrato e dimostra, se è vero, come è vero, che mentre
l’URSS è finita, ancora in Cina, in Corea del Nord, a Cuba, in Vietnam, in
Birmania, in Bielorussia, in Venezuela con il «socialismo del XXI secolo, il
comunismo terrorizza, affama, imprigiona, uccide… Ed in Italia concorre al
disastro del governo di Prodi.
E perciò – mentre qualcuno ancora si
attarda a celebrare la «rivoluzione d’ottobre» e, lungi dal tacere almeno per
decenza, ci vorrebbe pure riprovare – sarebbe invece giusto ricordare le
vittime del comunismo. Magari con un toponimo in tutte le città italiane,
affinché la sua storia non sia dimenticata né sottovalutata, ma rimanga un
tragico ammonimento, un memento del
male di cui è capace l’utopia fattasi ideologia, che nega Dio e la verità
sull’uomo, e pretende di ricostruire il sociale contro la realtà storica e la
natura.