Nuova escalation a Gaza. E’ crisi per Olmert e Abu Mazen
18 Gennaio 2008
Razzi Qassam, raid israeliani, defezioni politiche. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, quando un accordo era semplicemente una chimera. Tutto in una settimana, come se la conferenza di Annapolis non avesse mai avuto luogo: proprio quando Bush sembrava aver dato maggior forza ai negoziatori israeliani e palestinesi, la situazione è precipitata. Con il risultato che ora, ad essere in forse, sono gli stessi Olmert e Abu Mazen: i due leader che dovrebbero garantire un trattato di pace entro il 2008, infatti, non sono mai stati così deboli.
Tutto nasce con la partenza di Bush, dopo la tre giorni in Palestina: il presidente ha parlato chiaro tanto a Olmert quanto ad Abu Mazen, e martedì le trattative sembrano partire con il piede giusto. A questo punto, però, entra in gioco la violenza: la stessa, solita violenza fatta di razzi Qassam lanciati dalla Striscia sul Negev e di raid israeliani su Gaza. Gaza e Sderot, in questi giorni di escalation che sembra non avere fine, diventano la stessa cosa. Tanto che il quotidiano israeliano “Haaretz”, mercoledì, ha sbattuto in prima pagina due bambini: stesse lacrime, stessa situazione; uno di Gaza, uno di Sderot.
La cronaca ci parla di un volontario ecuadoriano colpito a morte da un cecchino palestinese: aveva vent’anni, stava aiutando la popolazione di un kibbuz nel Negev occidentale – vicino, troppo vicino alla Striscia di Gaza. Il giorno dopo, una pioggia di razzi Qassam comincia a piovere su Israele: 25 nella sola giornata di mercoledì, tutti rivendicati dalla Jihad Islamica. Israele risponde, con l’esercito: colpisce una macchina a Gaza City, uccidendo due militanti palestinesi e ferendo gravemente un bambino. Da qui in poi, inutile tenere il conto del botta e risposta: vittime palestinesi, danni a Sderot – dove le sirene suonano ormai più di dieci volte al giorno – e numerosi ricoveri di cittadini israeliani sotto shock. Giovedì altri quattro morti palestinesi, altri 40 Qassam con due feriti: basti sapere, per farsi un’idea della situazione, che da martedì su Israele sono piovuti 118 razzi e 62 colpi di mortaio. Un diluvio, al quale Israele ha risposto con decisi e ripetuti raid su Gaza nel tentativo di colpire le rampe di lancio dei militanti palestinesi della Jihad Islamica (controllata, e foraggiata, da Hamas).
Immaginate, in questa guerra – ora anche Olmert la chiama così –, dove possano andare a finire i negoziati. Giovedì mattina il capo negoziatore palestinese Erekat ha dichiarato che sarà impossibile parlare di trattative finché gli israeliani non metteranno fine ai raid sulla Striscia (nessun cenno, invece, ai militanti palestinesi). Venticinque palestinesi uccisi, oltre cento Qassam sparati a caso sulla popolazione israeliana: è troppo, anche per i negoziatori più integerrimi. Sulla stessa linea, anche Hamas: il leader della formazione Meshal, esiliato in Siria, si è rivolto direttamente a Israele ed è stato molto chiaro: nessun negoziato, nessuna tregua. Parole dure anche dal presidente dell’Anp Abu Mazen: Israele non fa altro che rafforzare Hamas, deve smetterla subito. In altre parole: incassare, ma senza rispondere.
Da parte israeliana, il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, ha messo chiaramente in luce la situazione: “Israele ha l’obbligo di rispondere ai suoi cittadini reagendo ai quotidiani attacchi che giungono dalla Striscia di Gaza”. La risposta tanto attesa, soprattutto da chi vive a Sderot e dintorni, è “una guerra contro il terrore. Quando parliamo di uno Stato palestinese che includa Gaza e il West Bank, deve essere chiaro che la situazione a Gaza deve cambiare”. Non si sottovalutino le parole della Livni: non sono in molti infatti – e sulla questione è stato vago a che il presidente Bush – a mettere in luce come, prima di un qualsiasi accordo, la questione Hamas vada risolta. Una deve essere la Palestina, ha riflettuto la Livni: al momento, però, sono due. E quella di Hamas, nella Striscia di Gaza, è l’ultimo degli interlocutori possibili.
Risposte severe ai razzi, a dispetto delle critiche palestinesi, giungono anche per bocca di Olmert. Il premier israeliano ha parlato di una vera e propria guerra in atto al confine con la Striscia, una guerra alla quale prendono parte “i più coraggiosi e audaci dei nostri soldati e dei nostri membri della sicurezza. Questa guerra non si fermerà – ha continuato il premier –, combatteremo la Jihad Islamica e Hamas e tutti i loro alleati senza compromessi, senza concessioni e senza mercanteggiare”. Riguardo ai civili uccisi durante i raid, Olmert ha assicurato che “non abbiamo alcun desiderio speciale di uccidere i residenti di Gaza, ma non possiamo tollerare e non tollereremo questo incessante fuoco sui cittadini israeliani”.
Il ministro della Difesa, Ehud Barak, si è invece recato personalmente nelle zone del Negev maggiormente colpite dal fuoco della Jihad Islamica. Per tutti i cittadini colpiti, una promessa precisa: “L’esercito israeliano porterà avanti azioni continuative e decise allo scopo di colpire i responsabili dei lanci dei razzi Qassam, fino a quando non saranno più in grado di colpire Israele”. Facile a dirsi, verrebbe da dire: sino ad oggi i raid israeliani sono stati (appunto) duri e continuativi, ma non sufficienti. Barak lo sa: “Non sarà facile e non accadrà nel giro di una settimana, ma metteremo fine all’attacco contro Sderot”. Ecco affacciarsi, ancora una volta, l’ipotesi di un’invasione militare della Striscia su larga scala: se ne parla da mesi, ma l’ostilità internazionale contro la quale sbatterebbe Israele ha funzionato sino ad ora come deterrente. Già, ma per quanto si potrà andare avanti così?
Spesso i problemi vengono tutti insieme: oltre alla guerra, infatti, Abu Mazen e Olmert si trovano a fronteggiare in questi giorni seri problemi di stabilità politica. Sul fronte dell’Anp, Abu Mazen viene colpito tanto da Hamas – che non riconosce la sua legittimità e la sua volontà di trattare con la controparte – quanto dalla Siria e dall’Iran. Da tempo, infatti, Ahmadinejad e Assad soffiano sul fuoco della rivolta incoraggiando Hamas e altri gruppi radicali a rovesciare e rimpiazzare Abu Mazen. In questo quadro, il leader dell’Anp è assolutamente impotente: da qui le voci, riportate dal “Jerusalem Post”, di possibili dimissioni nel caso in cui gli israeliani non mettano fine ai raid – una scusa più “dolce” per dichiarare la propria incapacità di frenare Hamas e, di conseguenza, le risposte israeliane.
Drammatica, però, è anche la situazione di Olmert. Principale preoccupazione per il premier israeliano è rappresentata da quelle frange della sua coalizione che non accettano la politica delle concessioni ai palestinesi. Mesi di ultimatum hanno portato questa settimana all’uscita dal governo del ministro per gli Affari Strategici Avigdor Lieberman, leader della formazione di destra Yisrael Beitenu. Principale motivo di dissenso, la questione dei futuri confini dello Stato palestinese: una presa di posizione alla quale Olmert ha risposto con durezza, ribadendo la volontà di procedere sulla strada delle concessioni stabilita ad Annapolis.
Ma non è tutto: a fine gennaio, infatti, verrà resa pubblica la relazione della commissione Winograd sulla guerra israelo-libanese del 2006. Si attendono dure critiche alle decisioni e alla condotta di Olmert durante il conflitto: e se il rapporto dovesse essere critico, a volere le dimissioni di Olmert potrebbe essere proprio il ministro della Difesa Barak. Ad oggi, dopo l’uscita di Lieberman, i seggi di Olmert sono già passati da 78 a 67: ma il partito religioso Shas, pressato dal leader dell’opposizione Netanyahu, potrebbe presto imboccare la stessa strada.