Nuove famiglie o fine della famiglia?
03 Gennaio 2016
Tra un mese si accenderà di nuovo in Italia il dibattito sulle unioni civili: il 26 gennaio il testo Cirinnà entrerà formalmente nell’aula del Senato, e il Presidente del Consiglio farà di tutto per farlo approvare quanto prima, mantenendo l’antica promessa fatta fin dalle primarie – approvazione della civilpartnership “alla tedesca”, cioè riconoscimento di unioni di fatto in forma similmatrimoniale, con adozione del figlio del compagno.
Renzi è convinto di farcela, grazie ai voti del parlamento meno cattolico della storia della Repubblica. Gli alleati di governo NCD, nonostante alcune prese di posizione, non sembrano avere alcuna intenzione di mettere in crisi su questo la propria permanenza nell’esecutivo, e il nuovo corso della Chiesa cattolica, lontano dai tempi pugnaci del Family Day di ruiniana memoria, garantisce che non ci saranno levate di scudi del Vaticano contro il provvedimento. Rumors sui social e su alcuni quotidiani annunciano una nuova manifestazione di piazza, una replica di Piazza San Giovanni dello scorso 20 giugno: se questa iniziativa andrà in porto, potrà certamente aiutare chi in Parlamento si oppone alla legge, ma gli spazi per fermare la Cirinnà sono obiettivamente assai ridotti.
Nel frattempo, paradossalmente, a mancare è proprio una riflessione pubblica sulla famiglia, sulle mutazioni che ha subìto negli ultimi decenni e sulle conseguenze che ne sono venute per la società tutta: l’area di consenso intorno alla Cirinnà si limita a ripetere – noiosamente – che l’Italia è ultima nel riconoscimento delle unioni di fatto in occidente, e solo l’iniziativa delle femministe francesi contro l’utero in affitto ha offerto qualche spunto di riflessione diverso, nel merito, stimolando anche nel nostro paese appelli e controappelli, sempre rigorosamente nell’ambito delle “élite” di sinistra – come ha scritto Eugenia Roccella in una sua lettera al Foglio – che ne guidano il dibattito pubblico. Cominciamo quindi con oggi una serie di riflessioni sul tema “famiglia” che aiutino a contestualizzare il dibattito politico e, soprattutto, a prendere consapevolezza delle conseguenze di provvedimenti come quello che sta per giungere all’approvazione.
Un utile punto di partenza, nella vastissima letteratura di settore, è il libretto “Le nuove famiglie”, di Anna Laura Zanatta (ed. Il Mulino), non nuovo (del 2008 l’ultima edizione aggiornata) ma particolarmente interessante perché quanto scritto otto anni fa è ancor più evidente adesso. La chiave di lettura è quella della crisi inarrestabile e irreversibile del matrimonio. Una crisi che non ha motivi economici ma innanzitutto culturali e sociali, a partire dalla ondata di secolarizzazione che ha investito il mondo occidentale, insieme al paradosso secondo cui, “è proprio l’aver posto l’amore a fondamento del matrimonio moderno e contemporaneo uno dei fattori che hanno reso più fragile di un tempo l’amore coniugale”.
E’ importante, però, distinguere con chiarezza l’instabilità e la pluralità delle forme familiari dalla crisi del matrimonio come istituzione: da sempre sono esistite donne sole che hanno tirato su i propri figli, o famiglie ricomposte per via di seconde nozze di uno o entrambi i coniugi, con tutti i problemi dei figli di primo e secondo letto – basti pensare alla ferocia delle matrigne nelle favole più comuni, da Biancaneve a Cenerentola – come pure divorzi, o convivenze, con diversi gradi di accettazione, nel tempo, da parte della società. Ma si trattava di fenomeni riconducibili a guerre, migrazioni, calamità naturali, o anche all’elevata mortalità per parto, che producevano un gran numero di vedove/i ed orfani, con tutte le ricombinazioni possibili che ne potevano scaturire nei legami familiari: eventi ineluttabili, quindi, comuni nella vita dei secoli passati, che però non mettevano minimamente in discussione l’istituzione matrimoniale. La varietà di forme familiari che esiste adesso è invece il frutto di scelte consapevoli ed individuali, la prima della quale è proprio una ostilità o, ancor più frequentemente, una sostanziale e crescente indifferenza nei confronti del matrimonio in quanto tale.
E anche fra chi continua a sposarsi, le nozze sono sempre meno concepite come istituzione pubblica e sempre più vissute come un contratto privato fra le parti, dove ad essere istituzionalizzato è piuttosto il rapporto genitori-figli.
La parola che meglio sintetizza questo fenomeno è francese: “démariage”, parola semplice ma intraducibile, che indica una società “dematrimonializzata”, dove cioè il matrimonio non definisce più l’orizzonte della famiglia. L’autrice del saggio può dire che: “Possiamo vedere l’instabilità familiare come uno degli aspetti dell’instabilità dell’intera società di oggi”. Le convivenze sono sempre più viste come alternativa al matrimonio, e sempre meno come momento di passaggio verso le nozze. Altra differenza con il passato, fondamentale, è l’esistenza di un “genitore sociale”, in una forma mai esistita prima: in precedenza, infatti, la ricomposizione delle famiglie era tale per cui i “nuovi” genitori sostituivano quelli scomparsi o allontanati. Quando i genitori biologici non c’erano più, venivano sostituiti da seconde nozze o convivenze con altri, quelli, appunto, sociali. Adesso invece i “nuovi” genitori – sociali – si aggiungono a quelli biologici, perché la ricomposizione delle famiglie è dovuta a divorzi/separazioni/rotture di convivenze, tutte volontarie.
Nel testo non sono mai prese in considerazione le nuove tecniche di fecondazione assistita, con la conseguente frammentazione della figura materna, e neppure l’avvento dell’analisi del Dna, con tutte le conseguenze dell’attribuzione della paternità, soprattutto, ma anche della maternità (nel caso di fecondazione in vitro): eppure l’autrice non può evitare di osservare che “la famiglia ricomposta è una sfida per il legislatore, perché lo obbliga a cercare un modo per conciliare la genitorialità biologica e quella sociale. Nessun paese occidentale ha trovato finora una soluzione soddisfacente a questo problema”, e aggiunge, acutamente “ ma questa è una sfida anche per gli individui coinvolti, perché i legami di genitorialità e di parentela sociale, a differenza di quelli biologici, come esistono per volontà dei singoli, così possono finire per il venir meno di questa volontà”. In altre parole: se da un contratto si può sempre recedere, in qualche modo, attenzione a contrattualizzare la filiazione, concependola solo socialmente.
In questo quadro l’Italia rappresenta un’eccezione, anche nell’ambito del modello mediterraneo dove l’istituzione matrimoniale in genere resiste meglio all’attacco della postmodernità – la gran parte dei bambini italiani nasce ancora adesso fra coppie sposate, mentre le madri nubili superavano il 40% del totale già in Austria, Svezia e Norvegia, quando il libro è stato pubblicato – e dove soprattutto le reti parentali ancora svolgono un ruolo fondamentale di supporto, tanto che, ad esempio, le madri sole italiane che versano in condizione di povertà sono in numero sensibilmente inferiore a quelle degli altri paesi occidentali.
Ma tutti i dati, già nel 2008, mostravano come l’Italia stesse velocemente accorciando le distanze con gli altri paesi occidentali “dematrimonializzati”, riducendo pericolosamente quei margini di specificità che hanno consentito alla famiglia italiana di reggere, nonostante tutto. In questo senso, una legge come la Cirinnà potrebbe essere il colpo di grazia decisivo per la famiglia italiana, e farci allineare, purtroppo, ai paesi dove il matrimonio sta diventando un’opzione per minoranze, con tutte le conseguenze del caso. Conseguenze sociali ed economiche che non sono mai state seriamente studiate e misurate sul piano dei costi. E’ questo il punto più critico che chi ci governa dovrebbe affrontare con serietà, prima di proseguire sulla strada del “démariage”.