Obama alla prova della Corea del Nord. Ma col Caro Leader c’è poca speranza

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Obama alla prova della Corea del Nord. Ma col Caro Leader c’è poca speranza

24 Gennaio 2009

Tra le questioni che Barack Obama si troverà subito ad affrontare in politica estera, c’è sicuramente quella della Corea del Nord, con il suo sospetto programma nucleare e il malcelato sostegno ai paesi ostili a Washington.

Proprio una settimana prima dell’insediamento del nuovo presidente americano, Pyongyang, in quello che è sembrato il suo primo messaggio ufficiale all’amministrazione entrante, ha condizionato un definitivo abbandono del suo programma nucleare alla decisione degli Stati Uniti di “normalizzare” i rapporti diplomatici con il regime comunista. “Logicamente è un torto asserire che le relazioni bilaterali possano migliorare solo quando noi mostreremo le nostre testate atomiche prima di ogni altra cosa”, ha affermato in un comunicato il ministro degli Esteri nord coreano Pak Ui Chun . E sebbene al momento "le armi non possono essere ispezionate”, il ministro ha assicurato che se l’amministrazione di Obama opterà per la distensione, "la Repubblica Popolare della Corea del Nord e gli Stati Uniti possono diventare stretti amici".

I due presidenti che hanno preceduto Obama alla Casa Bianca hanno scelto una politica di impegno multilaterale con Pyongyang. Dall’agosto 2003, George W. Bush ha avviato delle trattative per spingere la Corea del Nord a smantellare il suo sospetto programma nucleare, installazioni comprese, dando il via ai cosiddetti Six-Party Talks, insieme a Corea del Sud, Giappone, Russia e Cina. I paesi coinvolti hanno offerto cibo e combustibile in cambio di graduali passi in avanti da parte di Pyongyang verso l’abbandono del suo programma nucleare. Ma queste si sono rivelate trattative “stop-and-go”, non certo agevoli e non prive di difficoltà; inoltre, gli esperti sono convinti che Obama non solo dovrà cercare di indirizzare al meglio le lunghe e difficili discussioni con uno dei regimi più intrattabili al mondo, ma dovrà fare i conti anche con il deteriorarsi delle relazioni tra Corea del Nord e Corea del Sud.

Il neo-presidente americano, sin dalle sue dichiarazioni del 2007 apparse su Foreign Affairs, ha affermato di credere in un “intervento della diplomazia diretto, sostenuto e aggressivo”. Ma il vero problema che sottende tutte le trattative in atto, secondo la maggior parte degli analisti, è rappresentato dal fatto che la Repubblica Popolare non ha alcuna intenzione di rinunciare al suo programma nucleare, per lo meno non nel breve periodo. Gary Samore, esperto che si è occupato della questione nordcoreana ai tempi dell’amministrazione Clinton, dice che “siamo in un certo senso condannati al processo in atto, in quanto non abbiamo alcuna reale alternativa”. Un approccio diverso, con l’uso della forza e l’effetto potenziale di scatenare una guerra, non rappresenta a questo punto un’opzione valutabile. I militari americani sono già impegnati su due fronti, e i vicini di Pyongyang – la Cina e la Corea del Sud – sono entrambi molto cauti circa le potenziali conseguenze geopolitiche di un cambiamento di regime in Corea del Nord.

Stando a diversi report condotti sulla Corea del Nord, il paese avrebbe venduto tecnologia di missili-balistici all’Iran e alla Siria, entrambi nella lista americana dei sostenitori del terrorismo, e alla Libia, che non fa più parte di quella lista dal 2006. La stessa tecnologia sarebbe stata trasferita anche a Pakistan e Yemen. La presunta vendita di missili rappresenta una delle preoccupazioni prioritarie nella “guerra al terrorismo” condotta dagli Stati Uniti, in quanto allarga il raggio delle nazioni che potenzialmente potrebbero sviluppare le proprie armi chimiche, biologiche o nucleari. Durante il mandato dell’amministrazione americana di Bush, la Repubblica Popolare nordcoreana ha comunque compiuto alcuni passi importanti: in particolare il 26 giugno 2008 ha consegnato una dichiarazione del suo programma nucleare, che ha convinto Bush a rimuoverla dalla lista degli stati che sostengono il terrorismo, con l’eliminazione delle restrizioni collegate al Trading with Enemy Act (Atto sul Commercio con il Nemico).

Ora starà alla nuova amministrazione di Obama fare ulteriori passi avanti: sul tavolo delle discussioni andranno posti soprattutto i temi relativi alla proliferazione e all’arricchimento di uranio e trattative tese a convincere Pyongyang a permettere un protocollo di verifica sulle sue risorse al plutonio. Le preoccupazioni a riguardo non mancano, viste anche dichiarazioni rilasciate in questi giorni dall’esperto americano, Selig Harrison, appena rientrato dalla capitale nordcoreana. I dirigenti da lui incontrati gli hanno riferito che “già 30,8 chili di plutonio sono stati trasformati a scopo bellico” e che si tratta di parte del plutonio di cui la Corea del Nord ha dichiarato ufficialmente il possesso. Harrison ha aggiunto che il quantitativo di plutonio trasformato è sufficiente a produrre quattro o cinque ordigni atomici. Tra l’altro proprio lo scorso mese si è registrata un’impasse nelle trattative dovuta al rifiuto della Corea del Nord di sottoscrivere un protocollo presentato dagli altri cinque paesi impegnati nei negoziati.

Del resto, la storia delle relazioni Usa-Pyongyang in particolare è segnata da momenti di stasi alternati a fasi di disgelo. Da una prospettiva più ampia, è chiaro come la Corea del Nord abbia assunto una posizione anti-Washington sin dalla sua stessa nascita nel 1948, accusando la Corea del Sud di essere un burattino nelle mani degli Stati Uniti. A partire dalla fine della Guerra di Corea nel 1953 il Nord non ha più attaccato il suo vicino, ma sino ad oggi ha mantenuto una forte concentrazione di truppe e di artiglieria puntate su Seul, e ha dato vita a continue provocazioni come rapimenti, incursioni sottomarine e test missilistici sul Mar del Giappone.

Il fondatore del Paese, il cosiddetto “Grande Leader”, Kim Il-Sung, è morto nel 1994 e al suo posto è salito al trono il figlio, l’attuale “Caro Leader” Kim Jong-il, un personaggio piuttosto eccentrico, la cui immagine è ormai nota, nonostante le sue rare apparizioni in pubblico, con l’inconfondibile tuta kaki. Da mesi ormai si rincorrono le voci sulla cattiva salute del leader e proprio in questi giorni sono uscite le prime indiscrezioni sul possibile erede designato: secondo i i servizi segreti sudcoreani citati dall’agenzia Yonhap si tratterebbe del più giovane dei suoi figli Jong-un. Il quotidiano giapponese Yomiuri cita fonti Usa e ipotizza invece una leadership collettiva intorno al figlio maggiore Jong-nam. Due appuntamenti potrebbero, magari, aiutare a dissipare qualche nebbia. Il 67˚ compleanno di Kim Jong-il – che comunque rimane ancora saldamente al potere – a febbraio e le elezioni (pro forma) di marzo. Qualunque sarà la scelta finale, Obama si troverà dunque con ogni probabilità di fronte ad un imminente cambiamento di guida nel paese nordcoreano. In molti temono l’emergere di scenari imperniati sulla lotta per il potere, senza escludere l’eventualità di un collasso totale del governo.

Ma non sono solo queste le vicende che agitano il paese al suo interno. Nel frattempo infatti si levano sempre più voci relative ad altre questioni fondamentali, cui l’amministrazione di Obama dovrà necessariamente prestare ascolto: numerose sono le richieste che provengono dagli stessi elettori nordcoreani per rendere i diritti umani una questione prioritaria. Lo scorso settembre il Congresso degli Stati Uniti ha rinnovato la sua autorizzazione all’Atto sui Diritti Umani della Corea del Nord, conferendo all’inviato speciale autorizzato dall’atto stesso nuova autorità e maggiori responsabilità riguardo ai rifugiati politici. Eppure diversi analisti esortano ad adottare tattiche differenti. Ad esempio Katharine H.S. Moon, docente di Scienze Politiche al Wellesley College, ritiene che lavorare con le istituzioni internazionali come l’Onu garantirebbe maggiori risultati e trasmetterebbe a Pyongyang l’importante sensazione di “non essere oggetto di demonizzazione”. Tuttavia recentemente Jay Lefkowitz, inviato speciale del presidente Bush per i Diritti Umani in Corea del Nord, ha scritto una nota per Barack Obama, sostenendo che “è il momento di adottare un nuovo approccio con la Corea del Nord, per stabilire in modo evidente un collegamento tra i diritti umani e la sicurezza”. Lefkowitz ha più volte esortato a dare vita ad un dialogo sul modello del “processo di Helsinki” attraverso il quale l’Europa occidentale ha portato avanti i negoziati con l’ex blocco orientale tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Proprio con quell’esempio in mente, Washington dovrebbe dunque promuovere una politica che tratti su un piano congiunto i temi economici, quelli della sicurezza e quelli dei diritti umani, insistendo sulla necessità di verificare i progressi che si registrano in ciascuna area, come condizione per qualsiasi aiuto finanziario o riconoscimento internazionale.

Resta infine per Obama da considerare quale sia il modo migliore per gestire il problema rappresentato dal recente deterioramento dei rapporti tra Pyongyang e Seoul. L’ultimo summit che lasciava sperare per il meglio si era aperto nell’ottobre del 2007, con la visita dell’allora presidente sudcoreano Roh Moo-Hyun, che accompagnato da una folta delegazione era stato il primo capo di Stato a varcare a piedi la zona smilitarizzata a divisione dei due Stati. "Questa linea – aveva detto attraversando la riga gialla del confine – sarà gradualmente cancellata e il muro cadrà" mentre la folla inneggiava alla riunificazione della Corea agitando mazzi del fiore nazionale, la Kimjongilia. Era il primo vertice tra i leader delle due Coree dopo quello storico del giugno 2000 tra lo stesso Kim e il sudcoreano Kim Dae-Jung, in seguito insignito del Nobel per la pace. Fu allora avviato un processo di disgelo che è stato rallentato dalla crisi legata al programma nucleare nordcoreano ma non si è interrotto. Sono stati costruiti ponti, strade e collegamenti ferroviari e alle famiglie divise tra le due Coree è stato permesso di incontrarsi, sia pure per brevi periodi. Ora, in molti speravano che con un accordo tra Washington e Pyongyang per lo smantellamento degli impianti nucleari nordcoreani, la riconciliazione potesse decollare, anche se gli esperti sottolineavano gli interessi di Kim a mantenere una pressione su Seul per estorcere concessioni economiche per il suo Paese sull’orlo della bancarotta. Ed infatti la riconciliazione ancora non c’è stata, anzi il contrario: dallo scorso febbraio, con l’ascesa al potere nella Corea del Sud del presidente Lee Myung-bak, le tensioni tra le due Coree sono andate progressivamente aumentando. Come ultima mossa Pyongyang ha addirittura minacciato di chiudere il confine con la Corea del Sud, di interrompere i collegamenti dei treni con carichi per scambio di merci, e di sospendere tutti i tour per i sud coreani. Visto anche l’obbligo di difesa nei confronti della Corea del Sud in caso di aggressione esterna, stabilito dal Mutual Security Agreement del 1954, Washington non può certo permettersi di tirarsi fuori dall’annosa disputa nella penisola coreana.  

La situazione è sicuramente molto delicata e al momento pochi sono gli spiragli per una soluzione a breve termine, come appare chiaro dalla posizione espressa dall’ex portavoce del Dipartimento di Stato Sean McCormack, secondo il quale “è necessario che si arrivi ad una Penisola Coreana senza il nucleare” prima che la Corea del Nord possa aspettarsi una normalizzazione delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Il vero problema dunque è che nessuno sembra realmente disposto a fare il primo passo.