Obama ammette il successo di Petraeus e cambia idea sull’Iraq

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Obama ammette il successo di Petraeus e cambia idea sull’Iraq

18 Luglio 2008

Barack Obama ha tenuto nei giorni scorsi un importante discorso sulle linee guida della sua eventuale politica estera da presidente. Uno dei punti più interessanti è la posizione espressa sulla guerra in Iraq, posizione che il candidato democratico sta parzialmente modificando di fronte alle positive evoluzioni della situazione irachena – e al conseguente riorientamento dell’opinione pubblica americana. 

Il discorso di Obama, come al solito segnato da un’abile oratoria, su molti temi dell’agenda internazionale articola posizioni simili a quelle del suo rivale repubblicano John McCain: dalle politiche contro il riscaldamento climatico al rafforzamento del regime internazionale di controllo del nucleare, dall’impegno per vincere la guerra in Afghanistan alla ricostruzione delle alleanze internazionali. Sull’Iraq invece il senatore democratico critica fortemente McCain per la sua intenzione di mantenere ancora a lungo il contingente americano nel paese, tuttavia si trova in difficoltà nell’indicare una strategia realmente diversa da quella del suo rivale nella corsa alla Casa Bianca. 

L’obiettivo principale proclamato da Obama rimane quello di porre fine alla guerra in Iraq. Tuttavia per il candidato democratico ciò non significa ritirare tutte le truppe americane dal paese mediorientale: sin dalla fine del 2007 Obama prevede di lasciare in Iraq una forza militare “residua”, di cui il senatore afro-americano non ha definito l’entità. Secondo l’ultimo discorso di Obama, questa forza avrebbe l’obiettivo di “combattere i militanti di Al-Qaeda, proteggere il personale americano nel paese, addestrare e sostenere le forze di sicurezza irachene”. Sono tutti compiti molto impegnativi che l’attuale contingente americano già esegue, e la maggior parte degli esperti stima che siano necessari almeno 50-60.000 soldati per adempierli adeguatamente. La forza “residua” di Obama ammonterebbe dunque a quasi metà del contingente attualmente schierato in Iraq, dimensione che contraddice di fatto il concetto stesso di ritiro. Non a caso Obama nell’ultimo discorso non utilizza più il termine “ritiro” – withdrawal – ma il più vago termine “ridispiegamento” – redeployment – forse perché sa di essere facilmente criticabile nel momento in cui spiegasse che ritirare le truppe dall’Iraq significa lasciarne metà per adempiere gli stessi compiti che hanno ora. 

Altra modifica non da poco conto dell’originaria posizione di Obama riguarda i tempi per il “ridispiegamento”. Durante le primarie democratiche il senatore democratico aveva gareggiato con Hillary Clinton nel promettere un calendario di ritiro delle truppe il più stringente e rapido possibile, per ottenere i voti degli attivisti pacifisti democratici. Aveva perciò proposto di ritirare 1-2 brigate al mese per concludere il ritiro entro il 2009. Nell’ultimo discorso invece Obama ha omesso di specificare quante brigate ritirerebbe ogni mese e ha rinviato il termine per concludere il “ridispiegamento” all’estate del 2010. 

Probabilmente Obama ha deciso di trasformare il ritiro in “ridispiegamento”, di renderne più vaghi i termini e di rinviarne la conclusione per un semplice motivo: la strategia del surge ha funzionato rendendo la stabilizzazione dell’Iraq più vicina, l’opinione pubblica americana se ne sta accorgendo e perciò dà maggiore credito a chi vuole concludere la missione prima di ritirarsi rispetto a chi ha finora chiesto una fuga dall’Iraq senza se e senza ma. Che il surge abbia funzionato l’ha riconosciuto lo stesso Obama nel suo ultimo discorso: “Le nostre truppe sono riuscite brillantemente a ridurre i livelli di violenza. Il generale Petraeus ha utilizzato nuove tattiche per proteggere la popolazione irachena. Abbiamo negoziato direttamente con le tribù sunnite ostili agli Stati Uniti e sostenuto la loro lotta contro Al-Qaeda. Questi sono fatti, e tutti gli americani ne sono lieti”. I successi della strategia proposta anni fa da McCain e adottata all’inizio del 2007 da Bush sono insomma diventati così evidenti che perfino gli analisti, i giornalisti e i politici aprioristicamente ostili dell’amministrazione Bush, in America come in Italia, hanno dovuto ammetterli. 

Obama nel suo discorso continua però ad affermare che ai successi sul fronte della sicurezza non sono seguiti in Iraq progressi su quello della riconciliazione politica. E’ un’affermazione parzialmente falsa, perché nei mesi scorsi il parlamento iracheno ha approvato all’unanimità tre leggi fondamentali per la riconciliazione nazionale: l’amnistia per migliaia di miliziani sunniti, che ha permesso la riduzione della tensione inter-settaria; il bilancio pubblico per il 2008, che ha permesso al governo iracheno di utilizzare gli introiti petroliferi per fornire servizi essenziali alla popolazione; la legge istitutiva delle province, la cui elezione è prevista per ottobre, che permetterà a sunniti, curdi e sciiti di governare politicamente e non con le armi le rispettive regioni. Obama probabilmente tace su questo aspetto perché riconoscerlo significherebbe sconfessare la linea tenuta dal suo partito fino a pochi mesi fa, linea già in gran parte sconfessata dal recente voto favorevole dei parlamentari democratici al finanziamento delle operazioni in Iraq fino all’estate del 2009. 

Analizzando la situazione irachena si dovrebbe infatti concludere che aveva ragione chi, come McCain, sosteneva che la strategia del surge avrebbe diminuito i livelli di violenza e dato modo al processo di riconciliazione nazionale di andare avanti, e che aveva torto chi, come Obama, voleva ritirare subito le truppe dall’Iraq perché ormai il paese era perduto. Oggi il candidato democratico non intende ripetere l’errore del passato, e sta subendo pesanti critiche dai gruppi pacifisti – che lo accusano apertamente di tradire le promesse iniziali – pur di assumere una posizione più in linea con la realtà. La realtà infatti è che il comando militare americano in Iraq, passato nel frattempo dal generale Petraeus al suo braccio destro Raymond Odierno, ha già ritirato tutte le truppe aggiuntive del surge senza che questo abbia innescato un peggioramento della situazione. Odierno sta inoltre programmando un ulteriore parziale ritiro da effettuare entro l’anno se le condizioni sul terreno lo permetteranno. La differenza infatti tra la posizione di McCain da un lato e quella di Obama dall’altro è che il primo ha come obiettivo la stabilizzazione del paese e  intende ritirare le truppe man mano che la situazione si consoliderà, mentre il secondo fino a pochi mesi fa chiedeva di ritirare le truppe a prescindere dalle condizioni sul terreno, lasciando peraltro decine di migliaia di soldati americani in una situazione insostenibile. 

Oggi, paradossalmente, le due posizioni tendono a coincidere nella pratica perché da un lato i progressi nella stabilizzazione dell’Iraq permettono all’amministrazione Bush di ritirare parte delle truppe, e dall’altro Obama ha dilazionato il proprio astratto calendario di ritiro sperando così di indovinare i tempi giusti della realtà irachena. Infatti, se i trend in corso in Iraq non saranno invertiti – cosa sempre possibile – le forze di sicurezza irachene prenderanno il controllo di tutte le province del paese entro il 2009 permettendo al prossimo presidente, chiunque esso sia, di ritirare una parte cospicua delle truppe americane intorno al 2010. Se ciò avverrà, cosa non certa ma ora possibile, sarà grazie agli sforzi americani di questi anni nel costruire uno stato non più tirannico, sufficientemente stabile, e alleato degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo.