Obama corre verso la sconfitta e potrebbe persino farcela
15 Settembre 2008
I Democratici sono in preda al panico: in una gara presidenziale impossibile da perdere, stanno rimanendo indietro. I seguaci di Obama danno febbrili consigli: Tom Friedman gli intima di “cominciare a sbattere il telefono in faccia a qualcuno”; Camille Paglia gli suggerisce di “essere più noioso”.
Nel frattempo, una congrega di avvocati Democratici, cronisti, bloggers sinistrorsi ed altri personaggi contagiati dalla Obama-mania passano a setaccio la vasta tundra dell’Alaska alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, in grado di screditare Sarah Palin: la gravidanza di sua figlia, la questione del cognato, i suoi 60 dollari al giorno, ed ora la sua religione (la CNN ci informa –con uno scoop lampo, pensate!- che pare che Palin non abbia mai parlato in una lingua straniera). Sin da quando Enrico II chiese che qualcuno si sbarazzasse del suo scomodo prete, non si era mai visto un tale zelo manifestarsi spontaneamente nella società.
Tuttavia, Sarah Palin non costituisce soltanto un problema per Barack Obama: è anche il sintomo del male che lo affligge. Prima che arrivasse Palin, Obama era decisamente il candidato più popolare: mai prima, per nessun candidato presidenziale che la storia ricordi, il margine tra venerazione e risultati concreti era stato così ampio –ed è proprio per questo che le pubblicità di Paris Hilton su McCain hanno toccato un nervo così scoperto. L’ascesa meteoritica di Obama non è basata sui principi (difatti non c’era chissà quale differenza tra lui e Hillary Clinton sugli specifici issues); bensì sull’eloquenza, sulla capacità oratoria, sul carisma.
Il senso di disagio alla convention di Denver, il rimorso nell’aver comprato qualcosa di cui poi ci si è pentiti, ha dimostrato come i Democratici abbiano realizzato che la celebrità di Obama è in caduta libera –e si appresta ora ad entrare nella sua fase di più rapida decadenza. Il fatto che Palin sia stata in grado di rubargli il posto sotto i riflettori così rapidamente non è altro che una conseguenza del declino della sua celebrità.
Era inevitabile. Obama è riuscito a mantenersi a galla per quattro anni interi, ma nessuno può rimanere in vetta per sempre. Cinque discorsi pubblici permettono di mappare più precisamente la parabola Obama.
Obama raggiunge la celebrità in maniera immediate dopo il suo brillante e commovente discorso alla convention Democratica nel 2004. Questo fa sì che uno sconosciuto Senatore diventi improvvisamente un personaggio di interesse nazionale, ed un legittimo candidato presidenziale.
Il suo seguente momento di gloria coincide con la notte in cui si svolgono i caucus dell’Iowa, quando Obama tiene un discorso altrettanto toccante in toni accesi ed intriganti, in grado di ammaliare la platea che si sintonizza da tutto il paese per seguire i risultati.
Il problema a questo punto è stato che Obama ha cominciato a credere nei suoi poteri magici: le litanie, gli svenimenti, l’auto-infatuazione degli slogan che recitano “noi-siamo-i-prescelti”. Proprio come Ronald Reagan, Obama ha saputo creare un movimento, seppur fondato interamente sulla personalità del suo leader; tuttavia, mentre la rivoluzione di Reagan si basava su concrete idee politiche (economia di mercato, liberalizzazione dello stato sociale, interesse nazionale), in grado di trascendere l’uomo che le rappresentava, per il movimento condotto da Obama l’uomo è l’elemento trascendente.
Tutto ciò ha dato alla sua campagna politica un vago sentore di culto. In occasione di ognuna delle primarie, ad ogni ripetizione della fluente ed autoreferenziale retorica, la mancanza di sostanza della campagna stessa è divenuta sempre più evidente. Una volta giunti alla notte in cui si sono svolte le ultime primarie, le truppe erano provate e demotivate; per mantenersi sulla cresta dell’onda, Obama doveva nuovamente stabilire un contatto. Da questo bisogno è scaturita la sua dichiarazione trionfale, secondo la quale la storia avrebbe guardato a quella notte, alla sua vittoria, alla sua ascesa, come “al momento in cui l’innalzamento degli oceani inizia ad arrestarsi e il pianeta si incammina sulla via della guarigione”.
Si sente in sottofondo il rumore dei cocci rotti. Obama però dà soltanto ascolto alle folle che lo acclamano e, non comprendendo che il modello pseudo-messianico sta finendo in pezzi, va a Berlino passando il punto di non ritorno. Le grandiloquenze che proclamano un universalismo insostanziale cancellano ogni dubbio: ora la grandiosità è diventata una fissazione.
A quel punto, il passo che lo separa da Paris Hilton è decisamente breve. E proprio in quest’attimo, i seguaci di Obama capiscono tutto, vedendo in prospettiva l’ombra del fallimento: per questo il successivo discorso a Denver, quello in cui Obama accetta la nomination, è così deliberatamente pedissequo, programmatico, ricalca fedelmente i toni del Discorso per lo Stato dell’Unione ed ha un solo breve momento lirico (con quella conclusione che richiama la Marcia su Washington).
Ciò nonostante, il problema è che Obama ha già da tempo annunciato che il discorso si sarebbe tenuto presso l’Invesco Field. Per colpa della sua hubris pre-berlinese, ora i Democratici non possono più disfarsi delle colonne greche, dell’atmosfera da circo, dei fuochi d’artificio che salutano le rockstar –in contrapposizione alla convention tradizionale dall’aria familiare, con i palloncini che riempiono la sala. L’incongruenza tra il contesto e il discorso non può essere più stridente: Obama che cerca di presentarsi come un candidato ordinario, misurato, ricordandosi a malapena come fare.
Ma mentre cade una stella, un’altra sorge più luminosa. La mattina successiva, McCain sceglie Sarah Palin e una nuova celebrità viene alla luce –e nel mondo delle celebrità, le novità sono sempre un elemento vincente. Con la sua storia personale, il suo carattere, il suo carisma che sta portando la campagna presidenziale di McCain dove mai si era creduto potesse arrivare –e dove per logica non aveva ragione di andare-, Sarah Palin ricorda il cammino di ascesa seguito da Obama.
Tuttavia, il suo compito è molto più semplice: deve restare sulla cresta dell’onda solo per sette settimane. Obama ha mantenuto quota per quattro stupefacenti anni: ma in politica, come in qualsiasi gioco, conta soltanto chi arriva vincente al traguardo.
© Townhall.com
Traduzione Alia K. Nardini