Obama divide il GOP e detta i tempi nella battaglia del debito
18 Luglio 2011
“Andiamo verso il baratro se non alziamo il tetto”, urla uno (Democratico). “Ma quale baratro, è ora di tagliare! Se non si riesce, tanto meglio andare a gambe all’aria,” dice l’altro (lui certo con un penchant Tea Party). Un terzo che assiste (dalle fattezze da navigato Repubblicano istituzionale da anni a DC), chiude l’effimero dialogo: “Si tagli nella stessa misura in cui ci si indebita”.
Se solo non fosse riduttivo (ma forse è per questo che ci si inventa certi siparietti fittizi), questo scontro dialogico riassumerebbe il dramma nazionale – e le sommarie posizioni in campo – nel dibattito sull’innalzamento del debt ceiling, il tetto al debito federale che il Congresso statunitense deve approvare entro il prossimo 2 Agosto, e che vede coinvolti in un estenuante negoziato politico la leadership Repubblicana del Congresso da una parte e i leader Democratici di Casa Bianca e Congresso dall’altra.
Non è dato sapere quali poterebbero essere le reali ripercussioni sulla tenuta del sistema politico, sull’economia reale o sui mercati internazionali qualora un accordo non fosse raggiunto. Timothy Geithner, il segretario del tesoro statunitense, ha definito tale eventualità “catastrofica”. Il presidente Barack Obama ha parlato di uno scenario alla “Armageddon”. Anche il presidente della FED, Ben Bernanke, ha parlato di “calamità finanziaria”. Insomma a sentire l’amministrazione statunitense (vabbé Bernanke non ne fa parte ufficialmente ma sulla sua rinomina la Casa Bianca ha pur messo il sigillo), il rischio che gli Stati Uniti corrono è alto.
Le “tre streghe” del rating globale – Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch – annunciano che il danno più probabile sarà un downgrading del debito statunitense sul mercato globale dei titoli di debito sovrano. In un articolo apparso il 18 Luglio 2011 su Politico.com, Josh Gerstein e Ben White sostengono che, qualora un aumento del tetto del debito non dovesse essere raggiunto, i mercati e l’economia statunitense ne risulterebbero certamente destabilizzati (i mercati azionari potrebbero andar giù e i tassi d’interesse sui Treasury bills potrebbero salire fortemente).
Il problema: il debito federale statunitense. Ha raggiunto la cifra record di 14,3 trilioni di dollari, il 69% del PIL statunitense. Un computo quello del debito che peraltro non è onnicomprensivo, visto che non vi finisce dentro il debito accumulato dagli Stati federati (lo Stato del Minnesota ha chiuso recentissimamente i battenti mandando a casa più di ventimila dipendenti pubblici per bancarotta), le insolvenze di Fannie Mae e Freddie Mac, salvati a suon di bailout dall’ex segretario al tesoro statunitense Henry Paulson con avallo dell’ex-presidente George W. Bush nel 2008, oltre che le obbligazioni emesse dallo Stato federale per finanziare le “unfunded liabilities”, i debiti non coperti della Social Security statunitense, il mostro di erogazione di servizi pubblici (dalle sembianze molto europee), creato dal presidente Lyndon Johnson nella seconda metà degli anni ‘60.
Resta il fatto che il prossimo 3 Agosto, qualora le negoziazioni tra la leadership Repubblicana del Congresso e quella Democratica di Congresso e Casa Bianca non dovessero portare a un accordo soddisfacente per tutte le parti (un altro modo per definire un accordo potenzialmente lose-lose per tutti), l’amministrazione Obama e la FED non solo dovrebbero fronteggiare le turbolenze derivanti dal mancato accordo – tenere a bada mercati e opinione pubblica – e rassicurare i mercati internazionali dal rischio default (il cosiddetto “factor risk Ecuador”, fattore rischio Ecuador ovvero l’eventualità che si abbia default per ragioni prettamente politiche), ma in più avrebbero dovrebbero mettere le mani alla borsa federale col sopraggiungere delle prime scadenze scoperte.
Si parte con 11 miliardi di dollari in differenziale tra quello che il Tesoro aspetta in gettito il 3 Agosto prossimo (12 miliardi di dollari) e il dovuto (23 miliardi di dollari) da versare ai beneficiari della Social Security; a ciò si aggiungano i 20 miliardi di dollari in scadenze che, secondo il giornale Politico, saranno contabilizzate di seguito. E poi ancora la scadenza di Ferragosto, che porta in ‘dono’ al governo federale un pagamento da 29 miliardi di dollari in interessi sul debito. Insomma scenari d’insolvenze inimmaginabili solo qualche anno or sono.
A meno che un accordo non sia raggiunto. Ma quali i posizionamenti in campo? Su una cosa tanto i Democratici che i Repubblicani convergono: questa volta l’innalzamento del tetto del debito deve trovare corrispondente copertura contabile. Sul come raggiungere tale obiettivo, Democratici e Repubblicani hanno tracciato la linea di scontro. L’amministrazione Obama e la leadership Democratica del Congresso vogliono finanziare tale innalzamento con un aumento delle tasse, da imporre in particolare sui più ricchi, i “corporate jet owners,” quelli con il jet, per dirla con le parole del presidente Obama.
I Repubblicani stanno invece sul lato opposto del fiume. John Boehner e Eric Cantor, rispettivamente presidente e capogruppo di maggioranza Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti (con l’aiuto del capogruppo di minoranza Repubblicano al Senato Mithc McDonnell), chiedono che tale innalzamento sia operato con ‘real cuts’, veri tagli alla spesa federale. Il punto della questione è tutta qui.
Le elezioni sono vicine e nessuno vuole perderci la faccia. Il presidente Obama rischia grosso visto il suo magrissimo bilancio di governo economico: piano di stimolo da un trilione di dollari che ha mancato l’obiettivo del rilancio; una crescita economica fiacca; e una disoccupazione ben al di sopra di quella soglia minima necessaria che storicamente, da F.D. Roosvelt in poi, ha garantito a un presidente la rielezione. Se a ciò Obama dovesse sommare un cedimento alle richieste anti-tasse del GOP, finirebbe con alienarsi definitivamente la base liberal Democratica, mettendo a repentaglio le sue già misere chance di rielezione.
Per il momento Obama mantiene una certa presa nella trattativa. E’ riuscito a dividere la leadership Repubblicana, spaccata tra quelli pro-accordo (Boehner, McDonnell) e irriducibili ai tagli alla spesa (Eric Cantor). In una dettagliata analisi sulle negoziazioni in corso alla Casa Bianca, il co-direttore del settimanale Weekly Standard, Fred Barnes, elenca in tre gli errori commessi dai Repubblicani durante i negoziati. Primo errore: aver sovrastimato le capacità di influenzare il presidente nelle negoziazioni. Secondo, aver accettato negoziati segreti con la Casa Bianca, fatto che avrebbe permesso all’amministrazione Obama di fare finta pubblicamente di essere disponibile a tagli alla spesa senza avanzare reali proposte in segreto. Terzo, aver voluto che Obama prendesse le redini delle negoziazioni al posto del vice-presidente Joe Biden il quale le aveva gestite sino a poche settimane fa.
Qualunque sia il risultato, i Repubblicani farebbero meglio a non accettare alcun accordo che preveda aumenti di tasse. In passato è costato loro caro. Come ha ricordato in un’intervista a Antonio Martino su questo giornale lo scorso 15 Luglio, “Bush padre per aver fatto un accordo simile sul budget con i Democratici nel 1991, venendo meno alla sua promessa ‘no more taxes’, ha perso la presidenza nel 1992”.