Obama è il grande assente alla festa della libertà di Berlino
09 Novembre 2009
di Rich Lowry
Nel suo primo anno in carica, Barack Obama è il presidente americano che ha visitato più paesi stranieri. Ha solcato il territorio di 16 nazioni, sorpassando agevolmente Bill Clinton (3) e George W. Bush (7). Un itinerario adatto a un vero e proprio “cittadino del mondo”.
Ma c’è una tappa che mancherà all’itinerario di Obama. Oggi Berlino celebra la commemorazione della caduta del muro. Obama, scusandosi per avere un’agenda già piena di impegni, ha gentilmente declinato l’invito. John F. Kennedy si rivolse ai berlinesi con la celebre frase “Siamo tutti berlinesi”. Nel 20esimo anniversario del più emozionante trionfo della libertà dell’ultimo secolo della nostra storia, Obama si rivolge ai cittadini di Berlino dicendogli: “Ich bin beschäftigt”, mi dispiace ma sono occupato.
Ed è tutta un’altra musica, non credete? L’incapacità di Obama di recarsi a Berlino è la delusione più grande della sua presidenza. E’ difficile immaginare qualsiasi altro presidente americano pronto a evitare una ricorrenza del genere. Soltanto Obama, con la sua sprezzante concezione della Guerre Fredda, vista quasi come un cimelio, e con il suo sforzo di affievolire il ruolo eccezionale dell’America nel mondo, poteva disdegnare l’invito del cancelliere tedesco Angela Merkel.
Durante la campagna presidenziale, Obama ha tenuto un celebre discorso proprio a Berlino, un discorrso destinato soprattutto a consacrare se stesso come l’apoteosi di un mondo pieno di speranza. Degli eventi del 1989, Obama disse, “ un Muro è caduto, la riunificazione di un continente è stata raggiunta, la storia prova che non esiste sfida troppo grande per un mondo che resta unito.”
Conforme alla tipica eloquenza obamiana, questo enfatico e magnanimo discorso si sgonfia come un soufflé, ogniqualvolta lo mettiamo a confronto con la logica dei fatti storici. Il muro di Berlino cadde soltanto dopo la resistenza determinata del Mondo Libero contro il blocco comunista. La Guerra Fredda non fu un gentile esercizio di comprensione reciproca, ma la ripetizione di un conflitto più lungo che nel Novecento ha opposto il totalitarismo e il liberalismo occidentale. E se l’Occidente ha prevalso, fu grazie alla forza dell’America.
Tuttavia Obama non sembra pensare in termini così antiquati e trionfalistici. All’estero, si avvale spesso del suo ruolo per chiedere scusa in nome dell’America, indebolendo fortemente la sua leadership. “In diplomazia internazionale, il presidente Obama sta impiegando gli stessi metodi che utilizzava all’epoca in cui era un community organizer del South Side di Chicago,” evidenzia il Washington Post, considerando “il mondo alla stregua di una comunità di nazioni simili per prospettive e interessi.” Che la guerra fredda non sia destinata a combaciare con la questa visione del mondo incredibilmente ingenua sembra quasi un inconveniente intellettuale.
Obama coglierà se non altro l’occasione del Ventennale del Muro per celebrare la libertà e i diritti umani, valori preziosi del liberalismo? Non necessariamente. Come principi di politica estera, li ha già in gran parte abbandonati a favore di un illegittimo realismo che mitiga i crimini di regimi ripugnanti nel resto del mondo. Durante la Guerra Fredda, indebolimmo i nostri nemici facendo luce sulla repressione che operavano all’interno dei loro Paesi. A Berlino, JFK parlò con veemenza del comunismo come “di un’offesa contro l’umanità”. Obama utilizza enfaticamente e con trepidazione un vocabolario simile ma evitando di compromettere l’opportunità di un futuro dialogo.
Ronald Reagan comprese che si poteva trovare un terreno d’incontro con il regime sovietico senza legittimarlo. Non interruppe mai il dialogo con i dissidenti sovietici nonostante l’irritazione di Mikhail Gorbachev, con cui stava trattando. L’America è rimasta comunque un faro per la libertà nel mondo, a prescindere dagli imperativi pratici della geopolitica.
Obama ha relegato en coulisse questa fondamentale aspirazione del potere americano. Per lui, non esiste più l’eccezionalismo del potere americano, ma gli Usa sono solo una fra le grandi potenze, alla ricerca di accordi con i nostri pari di Mosca o Pechino. Perché aspettarsi che celebri la memoria dei refuseniks del blocco dell’Est quando rifiuta d’incontrare il Dalai Lama prima del suo viaggio in Cina?
L’avvicinamento con la Merkel, durante il viaggio del cancelliere tedesco a Washington, è il massimo che Obama ha ritenuto opportuno concedere al suo alleato europeo. Un presidente americano, dunque, è pronto a soprassedere su eventi che hanno sancito la fine di una lotta che per cinquanta anni è costata sangue e soldi alla nostra Nazione. Per Obama il 1989 è un solo un anno lontano nel tempo, così come il partito democratico degli Harry S. Truman o di JFK appare ormai come un ricordo sempre più remoto.
Tratto da National Review
Traduzione di Andrea Marcelli