Obama è senza strategia, in Afghanistan come in Texas
10 Novembre 2009
di Mark Steyn
13 morti e 31 feriti avrebbero potuto essere un gran brutto giorno per i soldati americani in Afghanistan, e una grande vittoria per i Talebani. Ma quando la stessa cosa accade in Texas, nel cuore della più importante base militare americana, in un centro di smistamento per i soldati che partono e arrivano dai vari fronti oltremare, non si tratta semplicemente di “una tragedia” (come l’ha definita molta gente), ma dello scorcio di un potenziale colpo al cuore di ciò che – dopo l’11 Settembre – abbiamo chiamato “Guerra al Terrore”. Soldati coraggiosi addestrati per dare la caccia e uccidere i nemici dell’America sono stati uccisi al sicuro in casa propria da – in sostanza – lo stesso nemico, un uomo che crede e sostiene le stesse cose in cui credono i nostri nemici.
Ed è stato un maggiore dell’esercito americano.
Gli ufficiali e le altre autorità erano a conoscenza della sua fede e delle sue convinzioni ma sembra che abbiano pensato che si trattava solo di un’innocua diversità multiculturale – come se credere che "i Musulmani si alzeranno e combatteranno contro l’aggressore" (per esempio, i suoi commilitoni americani in Afghanistan) e scrivere su Internet dei peana sul “nobile eroismo” degli attentatori suicidi, sostenendo quindi in modo oggettivo la parte avversa, fossero cose che si possano ridurre a un qualche stile di vita alternativo, da aggiungere al flusso generale di ciò che accadeva alla base.
Quando nel pomeriggio di giovedì scorso è emerso che il killer era Nidal Malik Hasan, sono immediatamente apparsi una raffica di messaggi su Twitter con questa formula affascinante: “Per favore, giudicate il maggiore Hasan per le sue azioni e non per il suo nome”. I Twitterers possono rilassarsi: non c’è mai stato realmente un pericolo di questo tipo – nel senso che i primi articoli del New York Times non hanno mai menzionato la parola “musulmano” o “Islam” parlando di Hasan, o che l’unica osservazione di Marta Raddatz della ABC sul nome dell’attentatore sia stata: “come mi ha detto una delle mogli degli ufficiali ‘ho sperato fino all’ultimo che il suo nome fosse Smith’ ”.
Ma che strana reazione. Ritengo che la Raddatz volesse dire che, se il suo nome fosse stato Smith, avremmo potuto tutti tirarci indietro nella stessa confortante illusione: è tutta colpa della burocrazia che ha permesso di promuovere Nidal Malik Hasan al grado di maggiore e di mandarlo nella base di Fort Hood mentre ignorava qualsiasi aspetto sulla vera essenza di quest’uomo.
Dopo l’11 Settembre, come dicono i Twitterers, la gente è stata giudicata per le proprie azioni – far piombare aerei nei grattacieli, farsi esplodere nei night club di Bali o alla stazione della metropolitana di Londra, sistemare le IEDs sulle strade di Baghdad o Tikrit. E a dirla tutta stiamo rispondendo con efficacia a quelle azioni, andando a stanare i nemici dai loro campi di addestramento in Afghanistan, colpendo i networks dell’insorgenza a Fallujah e a Ramadi, intercettano i piani dei terroristi a Londra, Toronto e Dearborn.
Ma siamo stati scrupolosamente imparziali sull’ideologia che spinge un uomo a guidare un aereo in un edificio o a farsi saltare in aria in una metropolitana, e per questo adesso si è aperto un buco al centro della nostra strategia. Usiamo frasi di circostanza come “Islam radicale” oppure, se questo sembra un pochino islamofobica, ci resta il caro, vecchio e semplice “estremismo radicale”. Ma non abbiamo mai fatto alcuno sforzo per tirare una linea che separi “l’Islam radicale” da quello non radicale.
Ci muoviamo a grandi passi verso qualcosa d’indifferenziato. Da qualche parte, in questo confuso intontimento, è avvenuta l’incubazione patologica di Nidal Malik Hasan. Psichiatra dell’esercito, il maggiore Hasan è un americano, nato e cresciuto negli Usa, che si è diplomato al Virginia Tech e in seguito ha ricevuto il suo dottorato alla Uniformed Services University of the Health Sciences di Bethesda, e che si era realizzato come persona nella parte migliore e più costosa della nostra elite educativa. Ma il maggiore è contro le azioni compiute dall’America in Medio Oriente e in Afghanistan, ed ha fatto delle osservazioni compiacenti sui jihadisti che operano sul territorio americano. “Hai bisogno di essere rinchiuso per un po’ ”, lo aveva avvertito il suo ufficiale di grado superiore, il Colonnello Terry Lee.
In realtà Hasan non ha mai avuto bisogno di “essere rinchiuso” da qualche parte. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa e se pure qualcuno avesse sollevato una “bandiera rossa” (un procedimento per la corte marziale, ndt) subito dopo la bandiera sarebbe stata messa in naftalina. Molta gente è “contro la guerra”. Alcuni sono oggettivamente dall’altra parte – questo per dire che incoraggiano e sostengono gli attacchi ai civili e alle truppe americane. Ma non molti di coloro che rientrano in quest’ultima categoria sono maggiori dell’esercito statunitense. O almeno dovremmo sperarlo.
Perché stupirsi ancora? Azad Alì, un uomo che cita con approvazione osservazioni del tipo “Se vedessi un americano o un inglese indossare un’uniforme da soldato in Iraq, lo ucciderei perché è mio dovere” è un consigliere del Britain’s Crown Prosecution Service (l’equivalente degli “attorney” americani). Questa settimana, a Toronto, l’impavida ex musulmana Nonie Darwish ha ricordato en passant che una volta, volando dagli Stati Uniti al Canada, è stata interrogata a lungo da un agente doganale, apparentemente musulmano, sullo scopo della sua visita. Quando la donna ha rivelato che avrebbe tenuto un discorso sulla legge islamica, l’agente ha ribattuto: “ Non siamo qui per mettere in dubbio la sharia”. Sono queste le maniere di chi si occupa della sicurezza al desk di un aeroporto.
Sul New York Times, Maria Newman ha soltanto sfiorato il credo di Hasan: “Era single, stando ai documenti, e non aveva preferenze religiose”. Grazie al cielo, eh? Un vicino in Texas dice che il maggiore aveva affisso sulla porta di casa il nome “Allah” e “un’altra parola” in lingua araba. Forse “Akbar”? Sembra che martedì mattina, prima della strage, Hasan abbia distribuito delle copie del Corano ai suoi vicini. Si è messo a gridare in arabo e poi ha aperto il fuoco. Ma non preoccupatevi: come ci ha assicurato il portavoce della Polizia, nel suo appartamento non c’era nessuna angolazione terroristica.
Ed è vero se guardiamo le cose da un punto di vista davvero limitato. Il maggiore Hasan non è un membro ufficiale della branca texana di Al Qaeda che fa rapporto ad un ufficiale di riferimento perso da qualche parte in Yemen o Waziristan. Se lo fosse stato, le cose sarebbero potute andare molto più facilmente. Ma le patologie che guidano al-Qaeda battono anche nel cuore del maggiore Hasan, e in fin dei conti i suoi impulsi islamici sopravanzano la sua costosa educazione occidentale, la sua formazione di psichiatra, la disciplina militare – e la sua stessa identità americana.
Si potrebbe dire lo stesso di Faleh Hassan Almaleki, che viveva a Glendale, in Arizona, ed è stato arrestato la scorsa settimana dopo aver investito fatalmente sua figlia Noor, “troppo occidentalizzata”, secondo lui, in quello che si può definire l’ultimo delitto d’onore in America. Oppure i due residenti negli Usa – uno americano, l’altro canadese – arrestati pochi giorni fa per aver tramato un viaggio in Danimarca con lo scopo di ammazzare il redattore che aveva ricevuto l’incarico di disegnare le celebri vignette su Maometto. Ma con una scrollata di spalle il fratello di Noor ha detto che “Qualcosa che ha senso per una cultura è insensato per un’altra”.
Davvero? Per gli Infedeli, l’Islam è in un certo senso inconoscibile, e per molti di noi è meglio che resti tale. La maggioranza dei musulmani non cospira per uccidere i disegnatori o assassinare le proprie figlie, oppure sparare su dozzine dei suoi commilitoni. Ma l’Islam ispira una buona dose di questo genere di comportamenti per renderli un legittimo argomento di analisi. Non trattenete il respiro. Ne abbiamo già parlato abbastanza, almeno nell’esercito.
Ciò che è accaduto a questi uomini e donne a Fort Hood evoca un orribile simbolismo: i membri delle forze armate meglio addestrate, e meglio equipaggiate del pianeta, sono stati presi a colpi di pistola da un tipo che ha detto delle cose assurde e che nessuno prenderebbe seriamente. Ed è esattamente questo il problema: l’America ha le forze migliori e la potenza di fuoco più agguerrita, ma non ha una strategia per strozzare l’ideologia che guida il nemico – in Afghanistan come in Texas.
Tratto da National Review
Traduzione di Roberto Santoro