Obama fa dietrofront su Guantanamo (incalzato dal redivivo McCain)

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Obama fa dietrofront su Guantanamo (incalzato dal redivivo McCain)

29 Settembre 2009

Aveva fatto il giro del mondo, l’immagine raffigurante il presidente americano Barack Obama intento a firmare l’ordine esecutivo con cui si decretava la chiusura del carcere di massima sicurezza di Guantanamo Bay nell’isola di Cuba. Un gesto dall’alto valore simbolico, con il quale il nuovo comandante in capo, insediatosi da soli due giorni alla Casa Bianca, voleva mostrare all’America e al resto del mondo un taglio netto con il passato e con l’era Bush. Sull’onda dell’entusiasmo popolare, nonché di una duratura luna di miele mediatica, Obama inaugurava il proprio programma amministrativo ordinando lo smantellamento di uno dei simboli più controversi della guerra al terrorismo voluta e condotta dal predecessore George W. Bush in seguito agli attacchi dell’11 Settembre 2001. Come più volte promesso nel corso della campagna per le elezioni presidenziali, il 22 gennaio il presidente democratico aveva assicurato agli americani che il carcere ospitante circa duecento sospetti terroristi, sito nella piccola porzione di territorio cubano appartenente agli Stati Uniti d’America, sarebbe stato chiuso entro un anno.

Sono trascorsi poco più di otto mesi da quella data e, con l’avvicinarsi del primo anniversario della firma di quell’ordine esecutivo, sembra che la chiusura di Guantanamo entro i termini prestabiliti rappresenti una sfida ormai impossibile per l’amministrazione Obama. I primi segnali in tal senso sono giunti lo scorso venerdì, quando fonti ufficiali della Casa Bianca, pur confermando la ferma intenzione di proseguire nella direzione indicata dall’ordine esecutivo, hanno rivelato alla Associated Press che, con molta probabilità, la scadenza di gennaio non sarà rispettata: le difficoltà e le lungaggini nell’esaminare le singole situazioni di ogni sospetto terrorista detenuto all’interno del carcere, unitamente alle non semplici questioni legali relative alla struttura – la quale, come noto, riveste uno speciale status giuridico in quanto sita al di fuori del territorio, ergo della giurisdizione, statunitense – potrebbero infatti contribuire a dilatare i tempi della procedura di smantellamento. E, sebbene il governo stia tentando di stringere i tempi, ancora sono da portare a compimento passi fondamentali, quali stabilire nuove regole per i processi militari, trovare una nuova struttura in cui ospitare i circa 225 detenuti attualmente residenti nel carcere cubano, nonché assicurarsi la disponibilità di altri Paesi di farsi carico di coloro che possono essere rimessi in libertà.

Ospite della trasmissione di approfondimento politico “State of the Union” sulla CNN, il segretario alla Difesa Robert Gates – nominato da Bush in sostituzione di Donald Rumsfeld, quindi mantenuto da Obama – ha confermato quanto già emerso nei giorni precedenti, dichiarando che la cosa “si è dimostrata più complicata di quanto previsto”, implicitamente suggerendo un errore di valutazione da parte dei vertici del governo. A fargli eco, l’ex avversario di Obama nella corsa alla Casa Bianca, il senatore John McCain che, anch’egli a favore della chiusura del carcere, sostiene di aver ricevuto conferma, da parte di funzionari governativi, del ritardo nei lavori e della conseguente scadenza mancata. I tempi della burocrazia e i cavilli legali non sembrano tuttavia essere le uniche difficoltà che l’amministrazione dovrà affrontare. La decisione di chiudere la prigione, dal momento in cui è stato firmato l’ordine esecutivo, ha incontrato infatti una lunga serie di ostacoli anche al Congresso. Dove, paradossalmente, essa ha incontrato più ostilità da parte degli esponenti democratici, che non dai membri dell’opposizione repubblicana. Il senatore democratico delle Hawaii Daniel Inouye ha persino presentato un disegno di legge per impedire il trasferimento di detenuti da Guantanamo agli Stati Uniti, dichiarando di non aver alcuna intenzione di finanziare la chiusura della prigione “perché l’amministrazione deve ancora presentare un progetto credibile”. Di opinione analoga, anche i leader repubblicani al Congresso, che hanno chiesto che la struttura rimanga operativa, poiché sarebbe troppo pericoloso, date le condizioni, affrettarne la chiusura.

Dopo la mancata approvazione di una legge di riforma del sistema sanitario entro i tempi prestabiliti dalla Casa Bianca, l’eventualità – ormai quasi certa – che un’altra promessa elettorale non venga mantenuta rappresenterebbe un duro colpo per Barack Obama. Reduce da un’estate che ha registrato una progressiva erosione del proprio consenso nei sondaggi, un calo di popolarità conseguente alla situazione di stallo in cui versa il dibattito sulla sanità, il leader politico che ha conquistato l’America cavalcando il messaggio del cambiamento e della speranza non può permettersi ulteriori passi falsi, che ovviamente alimenterebbero i dubbi, oltre che sulle sue scelte politiche, sulla sua effettiva capacità di guidare il Paese. Dall’altra parte, data l’estrema delicatezza dell’argomento, non sarebbe ammissibile accelerare i tempi a scapito della sicurezza nazionale, cosa che potrebbe significare esporre gli Stati Uniti a nuove minacce, eventualità che ovviamente Obama – già accusato dagli oppositori di essere troppo “soft” in politica estera e di aver reso gli Usa meno sicuri rispetto all’era Bush – vuole scongiurare a tutti i costi. Una nuova patata bollente nelle mani del comandante in capo, che paga quello che si è rivelato essere un grossolano errore di valutazione, dovuto probabilmente alla troppa fiducia nei mezzi a propria disposizione.