Durante la guerra di Gaza, Obama è rimasto in silenzio per non interferire con i piani dell’amministrazione uscente. Da oggi dovrà vedersela con la questione palestinese. Ha già detto che si “impegnerà immediatamente nel processo di pace in Medio Oriente”, un nodo che i suoi predecessori hanno sempre cercato di sciogliere: sia Clinton che Bush hanno accettato le richieste del popolo palestinese senza mettere in discussione l’alleanza con Israele. Uno sforzo diplomatico che dura da più di un decennio, dalla firma degli accordi di Oslo (1995) al patto di Wye Plantations (1998), sino al fallimento del secondo incontro di Camp David (2000). Per chi volesse ripercorrere gli sforzi e gli errori dell’amministrazione Clinton ci sono le 800 e passa pagine del diplomatico Dennis Ross.
L’opinione comune è che George W. Bush non abbia fatto granché rispetto a Clinton ma è un giudizio che fa parte della generale ondata di discredito che circonda l’epoca repubblicana appena trascorsa. In realtà Bush ha aiutato i palestinesi a riscrivere la “Basic Law”, ha ridotto Arafat a un paria politico, ha favorito un’alternativa moderata insistendo sulle riforme economiche come precondizione della pace. Bush ha spinto Fatah a fare i conti con gli islamisti di Hamas, ha imposto le sanzioni alla Siria e ha scoraggiato il dialogo tra Damasco e Israele. Nel 2002, fu il primo presidente americano a riconoscere formalmente lo stato palestinese. La “roadmap” voluta dagli Usa è stata adottata dall’Unione Europea, dalla Russia, dall’ANP e ha trasformato il segretariato di stato nel tavolo ufficiale del processo di pace.
Oggi il processo di pace israelo-palestinese è al palo. Olmert e Abbas sono fuori gioco. Le elezioni che si terranno a breve in Israele e quelle che dovrebbero svolgersi tra il 2009 e il 2010 in Palestina non lasciano presagire grossi cambiamenti. Ci vorranno settimane per ricucire le ferite della guerra e per garantire un minimo di ripresa economica e di sicurezza nella Striscia. La tregua labile di questi giorni potrebbe favorire il riarmo di Hamas. Ieri ci sono stati alcuni scontri a fuoco a Gaza e il comando militare israeliano ha accusato l’organizzazione palestinese di aver sparato nuovi missili violando il cessate il fuoco.
Obama ha definito Hamas un’organizzazione terrorista: “Per coloro che cercheranno di raggiungere i propri scopi attraverso il terrore e massacrando degli innocenti – questo il messaggio nel suo discorso di insediamento – vi diciamo che il nostro spirito è più forte e che non può essere battuto; non potrete sopravviverci, e vi sconfiggeremo”. In ogni caso, l’ANP è decotta e il presidente Usa deve capire chi sono i nuovi moderati nel fronte palestinese e nel mondo arabo. Rivolgersi a coloro che sono pronti a marginalizzare le forze più fanatiche. Distinguere i veri moderati da quelli che invece parlano di pace per favorire i propri interessi tattici.
Per adesso l’interlocutore più affidabile nel campo palestinese resta l’inaffidabile Abu Mazen che ha fama di pragmatico ma anche un grave deficit di carisma e consenso. Hamas è stata punita seriamente ed è ridotta male sul piano militare ma non ha perso la sua capacità di governo: ai palestinesi non sono piaciute le scene con le forze di sicurezza dell’ANP che picchiavano i manifestanti pro-Gaza nella West Bank. Questo potrebbe rinforzare le narrazioni eroiche e martirologiche che circondano i terroristi.
Quali sono le alternative che ha di fronte Obama? Nelle prossime settimane potrebbe scatenare l’offensiva diplomatica verso l’Iran e la Siria promessa dal segretario di stato Clinton. Negli ultimi mesi, grazie alla mediazione della Turchia, si era aperto qualche spiraglio tra Damasco e Tel Aviv – anche se è proprio nella capitale alawita che si nasconde l’ala stragista di Hamas. Nonostante le giravolte e l’astuzia di Bashar Assad, gli Usa potrebbero favorire la ripresa di una discussione sulla questione delle Alture del Golan (magari ripartendo dalla storia delle fattorie di Shebaa) per arrivare a un qualche accordo che non scontenti le parti in causa (Israele, Siria e Libano). “Se si ritirerà dal Golan siamo pronti a riconoscere lo Stato di Israele” ha detto Assad un’intervista rilasciata allo Spiegel lo scorso 19 gennaio. Bello scambio: terra in cambio di parole.
La riforma del mondo islamico è stato uno degli obiettivi più ambiziosi dell’era Bush. In parte è riuscita. Vedremo cosa farà il nuovo presidente per completarla. Cominciando dalla Palestina.