Obama ha messo una pietra sopra l’idealismo degli Usa in politica estera
22 Gennaio 2010
di Robert Kagan
I disordini interni che continuano ad interessare l’Iran dopo le elezioni presidenziali pongono due ordini di problemi per Washington. Improvvisamente è in gioco molto più del futuro del programma nucleare iraniano; dall’estate scorsa in bilico c’è anche l’avvenire politico dell’Iran. Secondo l’approccio realista e semplicistico così di moda di questi tempi, gli Stati Uniti, nel momento in cui decidono la loro politica estera, devono scegliere fra testa e cuore, interessi e ideali, e in entrambi i casi preferire la prima opzione. Ciò dovrebbe portare a una correzione del supposto idealismo portato avanti da George W. Bush – benché Bush abbia fatto davvero poco per promuovere la democrazia altrove. Appare ovvio, recita la nuova scuola di pensiero, che gli americani preferiscano un Iran democratico. Tuttavia, la questione principale adesso riguarda l’atomica in mano ai mullah, ed è questo che deve dominare il calcolo politico di Washington. Quando ideali e interessi si scontrano, gli ideali vengono messi da parte. Questo è stato senza dubbio l’approccio dell’amministrazione Obama – non solo verso l’Iran ma anche nei confronti delle dittature in Russia, Cina Venezuela e Medio Oriente. La natura del governo di un Paese diviene irrilevante; l’unica cosa che conta sono gli “interessi”, i nostri e i loro, e far sì che essi convergano.
Si crede che questo sia l’essenza del realismo; la Storia tuttavia suggerisce che questo approccio non rispecchia la realtà. Il sistema di governo di un Paese, infatti, conta, eccome: non solo in quanto questione morale per gli Stati Uniti, ma anche in quanto paradigma strategico. Questo perché l’ideologia è spesso decisiva nel formare la politica estera di altre nazioni. L’ideologia determina le loro ambizioni. È attraverso una lente ideologica che i Paesi determinano chi sono i loro amici e nemici. Anche la percezione di un governo e dei suoi interessi è plasmata dal sistema di governo. Questo è qualcosa che il padre del realismo moderno, George F. Kennan, comprese allorché scrisse il suo famoso articolo sulle motivazioni per una politica anti-sovietica nel 1946. Il comportamento del Cremlino era grandemente forgiato dal comunismo sovietico e dalla premessa di una rivoluzione globale. Non vi era modo di capire le ambizioni e la paranoia dei sovietici senza comprendere la loro visione del mondo.
L’errore commesso da molti, dopo la fine della Guerra fredda, è stato di credere che la validità di questo tipo di analisi fosse sepolta con il comunismo – come se solo i comunisti poggiassero la loro politica estera sull’ideologia. In realtà, la Russia ha continuato ad essere un perfetto esempio di come l’ideologia determina la politica estera. Quando la Russia intraprese il suo breve cammino verso l’apertura politica nei tardi anni Ottanta e durante gli anni Novanta, la sua attitudine verso gli Stati Uniti, l’Europa e la NATO mutò radicalmente. Michail Gorbaciov amalgamò glasnost e perestroika con una politica estera aperta e accomodante. Gorbaciov acconsentì alla caduta del Muro di Berlino; all’indipendenza dell’Europa centrale e orientale; riportò a casa le truppe sovietiche. Il suo successore, Boris Yeltsin, cercò l’integrazione sia economica che politica con l’Occidente democratico. Le politiche esterne di Mosca mutarono in questo periodo non perché cambiarono le circostanze materiali nel mondo. Gli Stati Uniti e la NATO non erano certamente meno potenti o minacciosi. Quello che cambiò fu la percezione di Mosca; e questa percezione cambiò perché mutò la natura del governo russo e la sua matrice ideologica. I leader liberali russi smisero d’un tratto di vedere nelle potenze democratiche degli avversari. Tutto ciò presentò un serio problema per il cosiddetto realismo. Citando Francis Fukuyama, “secondo la teoria realista, la democratizzazione dell’URSS non dovrebbe comportare nessuna differenza nella sua strategia”. Invece si è visto come le percezioni di minacce e gli interessi nazionali di Mosca fossero “pesantemente influenzati dall’ideologia”.
Oggi, il laboratorio russo continua a produrre delle evidenze sul ruolo dell’ideologia. Da quando l’esperimento democratico russo è fallito, arrendendosi al neo-zarimo di Vladimir Putin, la politica estera russa è mutata ancora una volta. Improvvisamente la NATO è di nuovo una minaccia. Mentre la Russia respingeva il liberalismo al suo interno, i suoi leader intravedevano nei tentativi di liberalizzazione di Paesi vicini quali Ucraina e Georgia una potenziale minaccia e chiedevano il ristabilimento di una sfera di influenza russa. Tutto questo suggerisce come il collegamento tra ideologia e politica estera – benché non sia assoluto – possa sovente spiegare quello che il realismo tradizionale non può. Prendiamo il caso del Venezuela: la sua politica estera è mutata in maniera sostanziale da quando Hugo Chavez ha fatto a pezzi le istituzioni democratiche e imposto il suo dominio tirannico. I precedenti leader democratici venezuelani non erano certo alleati-zerbino degli statunitensi. Eppure è solo con l’arrivo di Chavez al potere che il Venezuela è divenuto apertamente anti-americano, tentando di organizzare l’emisfero in un blocco anti-USA, pro-Russia, pro-Iran. Il Venezuela intratteneva buoni rapporti con la Colombia (stretto alleato di Washington). Ora Chavez sostiene la narco-guerriglia e avverte sulla possibilità di un conflitto armato tra i due Paesi. Gli interessi nazionali del Venezuela sono improvvisamente cambiati? No, Chavez ha solamente ridefinito quegli stessi interessi.
Così come Kennan chiese agli americani di vedere la politica estera sovietica attraverso la lente del comunismo, così oggi gli americani non dovrebbero lasciare che l’attuale tendenza per il realismo li privi della capacità di vedere come governano gli autocrati in Russia, Venezuela, China e Iran. Questi leader potranno anche condividere gli stessi interessi dei leader democratici, nondimeno possiedono pochi interessi speciali – prima di tutto la loro sopravvivenza, dato che la perdita di potere per un dittatore coincide spesso con la prigionia, la bancarotta, finanche la morte.
La politica estera è un modo con cui questi governanti si assicurano la sopravvivenza. Avere un nemico all’estero può risultare estremamente vantaggioso per giustificare la mano forte all’interno del Paese. Così il Governo cinese, ad esempio, spesso fomenta il nazionalismo anti-americano e anti-giapponese col fine di distrarre la popolazione dai problemi interni, mentre Putin mantiene viva un’onda di anti-americanismo; e non c’è regime che dipenda maggiormente dall’anti-americanismo del Governo iraniano. Gli autocrati in giro per il mondo condividono inoltre una autentica diffidenza nei confronti della democrazia. Anche il più sicuro tra loro – come può essere Putin – si preoccupa costantemente circa la perdita di controllo appannaggio di forze democratiche popolari e considera Stati Uniti ed Europa alleati naturali di queste forze. Quando l’Occidente fornì aiuto economico alle “rivoluzioni colorate” in Ucraina e Georgia, Putin lo interpretò come un atto di aggressione; i cinesi risposero con una preoccupazione simile.
L’ideologia aiuta ugualmente a capire perché regimi autoritari tendano a collaborare anche quando non hanno in comune interessi palesi. Il Venezuela intrattiene importanti relazioni con il lontano Iran. Putin considera Chavez un alleato naturale nell’emisfero occidentale e gli offre armi tecnologicamente avanzate oltre a prestiti generosi. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite Russia e Cina bloccano o rallentano sanzioni contro altre dittature: Iran, Zimbabwe, Sudan, Burma. Tutti questi esempi mostrano come l’ideologia non sia morta; ma in che modo influenzerebbe la politica estera americana? Riguardo all’Iran, tener conto dell’ideologia significa attuare un approccio molto diverso da quello seguito dalle amministrazioni Bush e Obama. Invece di concentrarsi soprattutto sul nodo nucleare, Washington dovrebbe prestare attenzione al sistema di governo e alla possibilità di riforme o di cambio radicale. Piuttosto di usare sanzioni per cercare di spingere l’attuale governo ad interrompere il programma nucleare – tentativo dal successo improbabile – gli USA assieme agli Stati europei farebbero meglio ad elaborare sanzioni utili a muovere Teheran o verso riforme democratiche o verso la caduta del regime. Considerata l’attuale instabilità del Governo di Ahmadinejad, questa strategia potrebbe funzionare. La pressione esterna e le sanzioni, unite ad una energica opposizione interna, hanno portato al cambio di regime in Sudafrica, Cile e Serbia. È dalle elezioni del 12 giugno che il Governo iraniano fatica a mantenere le briglie del potere. Chi può dire quale effetto potrebbero sortire nuove sanzioni?
Decisori politici europei ed americani ritengono che un Iran democratico vorrebbe in ogni caso l’atomica. Ne siamo sicuri? L’ideologia può cambiare tutto. Così come i leader liberali russi cambiarono le loro politiche verso l’Occidente, così un Iran democratico, partner amico di USA ed Europa ed integrato nell’economia globale, potrebbe rivedere costi e benefici del dotarsi di armi nucleari. E qualora un Iran democratico decidesse comunque di sviluppare il programma nucleare, l’Occidente avrebbe molte meno ragioni per essere preoccupato. Le democrazie tendono ad essere più disponibili ad accettare osservatori ed ispettori internazionali. Ancora più importante è una regola aurea delle relazioni internazionali: le democrazie raramente combattono guerre contro altre democrazie. Questa è forse la miglior ragione del perché l’ideologia è ancora importante. Gli americani lo capirono dopo aver imparato la dura lezione della Seconda guerra mondiale: un mondo dominato dalle democrazie non è solo un mondo migliore; è anche un mondo più sicuro.
Tratto da Newsweek
Traduzione di Emanuele Schibotto