Obama ha una sola speranza: giovani, ispanici e disoccupati

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Obama ha una sola speranza: giovani, ispanici e disoccupati

02 Novembre 2010

Due Americhe oggi si scontrano nelle elezioni di medio termine per il Congresso e il posto di governatore in 37 stati. Una è quella di Obama, che dopo due anni ha scoperto che anche l’uomo più potente del mondo non può risolvere con un colpo di bacchetta magica la rincorsa del deficit pubblico, la crisi economica, la disoccupazione. Per molti il Presidente ha rappresentato una speranza, un sogno, ma oggi sono proprio gli elettori che si mobilitarono per eleggerlo, giovani, donne, ceti popolari impoveriti e minoranze razziali, ad avere la tentazione di disertare le urne. E se lo facessero in massa sarebbe la peggiore sconfitta nella storia del Partito democratico al Congresso.I dems perderebbero la Camera, gran parte dei governatori, qualcuno dice anche il Senato.

Quella di Obama è l’America disincantata e un po’ sorniona che lo scorso weekend ha riempito le strade di Washington in occasione del “Restoring Sanity”, il rally pensato come una risposta al “Restoring Honor” made in Tea Party di agosto. Dopo aver lasciato praticamente la scena ai tea partiers per mesi, la base democratica ha reagito battendo un colpo, qualcuno dice finalmente, qualcun altro pensa che sia l’ultimo, rispondendo con ironia all’irruenza degli avversari e per ristabilire la moderazione nella dialettica politica. (Forse troppa irruenza, come ha sperimentato una delle militanti di MoveOn.org, finita per terra e immobilizzata dai supporter di Rand Paul a Lexington, nel Kentucky, uno degli stati in bilico nella corsa al Senato.)

L’appello del Presidente fino all’ultimo è stato votate e fate votare, per impedire ai repubblicani di fermare il programma dell’amministrazione. Occhio alle percentuali di affluenza, dunque, se saranno alte vorrà dire che i Democratici nutrono ancora delle speranze sul risultato finale. Ma dopo l’enfasi e i festeggiamenti di appena due anni fa è dura tifare per il meno peggio. I sondaggi avvertono che i blocchi elettorali decisivi per difendere la maggioranza dell’Asinello al Congresso stavolta hanno ceduto o rischiano di ribaltarsi.

In Florida non è bastata la discesa in campo dell’ex presidente Clinton (la “Billary” è la vera coppia vincitrice dei Dems, oltre il 60 per cento dei consensi) per convincere il candidato afroamericano Kendrick Meek a lasciar perdere la sua corsa in solitario e appoggiare l’uomo dell’establishment democratico, Charlie Crist, un “flip flop” ex repubblicano. Il paradosso è che in Florida il GOP schiera il suo gioiello di ultima generazione, quel Marc Rubio giovanotto dai modi composti e soprattutto non indigesto all’elite del partito, che potrebbe solleticare la minoranza ispanica e indipendente essendo di origini cubano-americane. Con questa vittoria, i Repubblicani metterebbero il sigillo su uno dei nomi spendibili per il ticket alle presidenziali del 2012.

L’altra America è naturalmente quella del Tea Party, fenomeno popolare ma anche mediatico, di cui oggi capiremo appieno forza e dimensioni. Nonostante per i tea partiers le fiscal issues vengano prima delle social issues, oggi anche il movimento dovrà fare i conti con i temi razziali e dell’immigrazione. In Nevada, la candidata sostenuta dal Tea Party, Sharron Angle (ben avvezza alla politica locale), si è appiattita sulla questione dei clandestini, producendo una serie di spot elettorali in cui messicani e sudamericani vengono descritti come il nemico della porta accanto. Questo arrovellarsi sul discorso razziale le gioverà o meno? Ieri sera il Washington Post titolava che i sondaggi la premiano.

Il suo sfidante non è l’ultimo arrivato. Il senatore Harry Reid è leader della maggioranza democratica al Senato ed è stato uno dei grandi sponsor dell’Obamacare. Quest’anno Reid ha battagliato per far passare il "DREAM Act" (Development, Relief, and Education for Alien Minors), una proposta di riforma dell’immigrazione avanzata dall’Amministrazione per allargare i diritti di cittadinanza dei figli degli immigrati, che poi si è arenata suscitando malumore nelle minoranze. Ma deve rincorrere la Angle. Oggi capiremo se gli americani preferiscono il DREAM Act alla legge dell’Arizona, che invece ha usato il pugno di ferro con i clandestini prima di essere bloccata da una sentenza giudiziaria.

Reid spera ardentemene nel voto dei latinos che in Nevada valgono il 15 per cento dell’elettorato. Fino a qualche settimana fa gli ispanici, soprattutto giovani, non sembravano molto convinti di tornare alle urne (nel 2008 in Nevada incoronarono Obama con un 76% di preferenze), ma dopo le intemperanze della Angle si sarebbero motivati, a sentire i blog dems. Obama ha spedito addirittura la First Lady Michelle nello stato dei casinò, per far breccia nelle minoranze. In Nevada, California, Texas, Nuovo Messico, Florida, Stato di New York, i latinos sono decisivi per il futuro dei dems. Questa grande comunità di immigrati sta provocando una sorta di movimento tellurico nel partito – spostando la tradizionale fedeltà delle elite verso la minoranza afroamericana in direzione degli ispanici che un giorno saranno maggioranza nel South West e in altri stati decisivi per la Presidenza.

Nelle midterm la questione razziale s’intreccia con quella del lavoro e con la situazione economica che sta vivendo il Paese. Il Washington Post ha pubblicato una mappa che si snoda nella Rust Belt, la "cintura della ruggine", l’Heartland americano deindustrializzato e precipitato nella bolla dei mutui e nella disoccupazione, dove Obama ha sparato le sue ultime cartucce prima di rinchiudersi in un preoccupante silenzio. Da Baltimora a Kansas City, dall’Ohio al Missouri, il Presidente riuscirà a convincere il mondo del lavoro che la resa dei conti è rimandata? Nel suo ultimo Weekly Adress, ha parlato di tasse. Musica per le orecchie dei “Blue Dogs” storditi dal bailout e dalla riforma sanitaria.

Per il partito repubblicano il bottino di una eventuale vittoria andrà comunque spartito con il Tea Party, un movimento che prima ancora di avercela con i liberal ha lanciato un forte messaggio di dissenso contro l’opposizione al Congresso. Sarà per la paura che i tea partiers divengano troppo forti o per il sospetto che la bolla dell’antipolitica sia destinata ad evaporare, che autori di area conservatrice come Bill Kristol e David Frum, sia pure con inclinazioni diverse, mettono in guardia dal cadere in un facile entusiasmo per la vittoria. La gioia è destinato a stemperarsi presto se i Repubblicani dovessero “accontentarsi” della Camera. E’ già capitato altre volte che un Presidente si sia trovato a governare con una dei due rami del Congresso in mano all’opposizione, e il sistema politico-istituzionale americano non è fatto per indebolire la presidenza.

Affascinati dall’entusiasmo del Tea Party e sull’onda di una vittoria che potrebbe superare ogni aspettativa, i conservatori sembrano aver dimenticato che durante l’amministrazione Bush fu necessario ampliare la spesa pubblica per sostenere lo sforzo bellico e garantire la sicurezza nazionale. Che il presidente repubblicano aveva un progetto costoso ed ambizioso per non lasciare indietro i bambini e gli studenti nelle scuole. Che il voto dei latinos lui sapeva come catturarlo. E che in America una riforma sulle tasse non passa se il Presidente ci mette il veto.