Obama, la Libia e la “guerra dei liberal”

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Obama, la Libia e la “guerra dei liberal”

25 Marzo 2011

È scoppiata la guerra dei liberal, non c’è dubbio, e il suo teatro è la Libia. Muhammar Gheddafi è un poco di buono, ovvio; ma più di altri? No di certo. Perché allora lui? Perché sotto i suoi piedi scorrono enormi Gange di petrolio. Pensare alle fonti energetiche con cui mandare avanti il proprio Paese è allora immorale? No di certo. L’accesso alle fonti petrolifere, infatti, l’acceso il più possibile certo, sicuro e a costi ragionevoli, è un interesse primario dei Paesi non produttori di greggio; e la Francia, come qualunque altro Paese ‒ gli Stati Uniti, per esempio, anche su altri scenari bellici e in anni diversi ‒ fa più che bene a curarsene gelosamente. Nulla di scandaloso.

Un po’ pretestuoso, invece, per non dire ipocrita, è il volere, chissà perché, mascherare la tutela, a ogni costo, di questo più che legittimo interesse nazionale dietro ragioni etiche che fanno acqua. Quasi non fosse già sufficientemente morale l’impegno a difesa dell’interesse nazionale energetico; quasi che a chiamarlo petrolio questo interesse nazionale divenga spregevole. Tale ingiustificata coda di paglia nel dire la verità ha così dovuto prima un po’ pelosamente prepararsi il terreno montando il “caso Gheddafi”, il quale, rapidamente, è stato trasformato da “amico di tutti” a “mostro genocida”. Poi ha dovuto prendere le difese dei ribelli: cioè di clan e tribù beduine che nessuno saprebbe identificare né chiamare per nome, di cui da 40 anni tutti si sono infischiati e che magari ‒ chi lo sa? ‒ sono infarcite di poco di buono non meno spregevoli del colonnello Gheddafi. Infine ha dovuto nascondere l’interesse nazionale dietro il “mandato internazionale”.

Niente di spregevole a pensare all’interesse energetico nazionale, dunque: solo che anzitutto occorre dirlo chiaramente che si combatte per esso, per il petrolio. Se infatti lo si dicesse chiaramente, se ne potrebbe allora discutere serenamente, prima, a tavolino, e a più voci, e pure tenendo conto dei distinguo, delle diversità di prospettive, dei vari anfratti del contesto geo-politico. In secondo luogo si eccepirebbe se non altro la timida eccezione che sì, certo, pensare a come mandare avanti un Paese è cosa buona e giusta, ma a tutti i costi? A costo dell’illegalità, dell’immoralità, della guerra sporca, della lesione della sovranità di un Paese qualunque esso sia?

Porsi questi interrogativi, infatti, porterebbe inevitabilmente alla madre di tutti i problemi: quel Gheddafi che se ne sta al suo posto da molto, troppo tempo senza che però alcuno si sia mai fatto domande anche quando il raìs era lo sponsor numero uno del terrorismo. Anzi, correggo: con la sola eccezione di Ronald W. Reagan (1911-2004), che quando decise che era giunta l’ora agì con una chiarezza e una distinzione da fare invidia, impartendo a Gheddafi una lezione che non ha mai scordato. Gheddafi da quattro decadi al potere, questo è il vero problema: avendo però tollerato il quale non si può improvvisarsi ora paladini del diritto e delle libertà colpendo a testa bassa come arieti, pretendendo pure di avere ragione.

Eccola qui, dunque, la guerra dei liberal: quella sempre armata di buone intenzioni avvoltolate sui missili, che pecca costantemente di uno strabismo da manuale, che gioca al liberatore non richiesto, che si trincera dietro patetiche partenti ONU per giocare al macellaio né più né meno di chi pretende di sanzionare.

Perché, davvero, una delle cose più indigeste delle guerre liberal è l’annoso affaire ONU. Guardiamo, infatti, la fattispecie della guerra liberal di Libia. La Francia, approvata e benedetta dall’ONU, è partita lancia in resta. Se davvero le motivazioni che spingono all’azione Francia e ONU fossero di natura umanitaria, l’ONU dovrebbe iniziare a guardare un po’ più attentamente dentro il proprio Consiglio di sicurezza e pure dentro il proprio Consiglio per i Diritti Umani. Inoltre, l’ONU e la stessa Francia interverrebbero in mille altri luoghi del mondo, cominciando dai dintorni della stessa Libia, per estendersi poi a Nordafrica e Medioriente, quindi all’Africa intera e all’Oriente nel suo complesso, e magari pure anche più in là.

Domandiamoci infatti una buona volta come caspita funziona questa Organizzazione delle Nazioni Unite nel cui Consiglio di Sicurezza, con diritto di veto, siedono Russia e Cina… La Russia è quel che è, e la Cina è un Paese che campa di lavoro schiavistico (c’è nel nostro parlamento una proposta bipartisan di legge italiana che mira a colpirla su questo), di repressione brutale dei diritti umani, di pena di morte comminata arbitrariamente a migliaia di “oppositori politici”, di aborto coatto per le famiglie dopo il primogenito e di turpe commercio di organi umani. Come caspita insomma opera quest’ONU nel cui Consiglio per i Diritti Umani sedeva, fino a che ne è stata sospesa il 3 marzo, proprio la Libia, e così dal maggio 2010? Un Consiglio dei Diritti Umani composto da 47 Paesi, fra cui figurano luoghi di amenità democratiche varie come Pakistan, Cuba, Cina, Nigeria, Qatar e Bahrein. E pure l’Arabia Saudita, ovvero quel Paese che nel Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU siede senz’avere mai sottoscritto la Dichiarazione Universale del Diritti dell’Uomo varata dall’ONU nel 1948.

Ora, il ruolo di “gendarme del mondo” ben remunerato che tradizionalmente viene, a torto o a ragione, tagliato addosso agli Stati Uniti “falchi” cala sulla Francia “razionale”, che pure lo interpreta in modo magistrale. Parigi sta infatti probabilmente cercando i tutti i modi di compensare (l’occasione è buona e ghiotta) per via libica le probabili (o magari già, se non altro parzialmente, reali) perdite di credito (o di credibilità?) in altre zone del Maghreb più o meno in rivolta. E forse pure di rattoppare il buco causato a suo tempo da Jacques Chirac, il quale, schierandosi contro la guerra in Iraq e quindi astenendosene, ha negato alla Francia accesso al piatto della ricostruzione del Paese mediorientale e a tutte le sue commesse petrolifere.

Solo che adesso non vedremo strali contro la “guerra neoconservatrice”, non sentiremo di processi sommari contro le “distruzioni di massa” probabilmente gonfiate di Gheddafi, non godremo di documentari di Michael Moore sugli altarini petroliferi fra i raìs libico e i potenti del mondo occidentale. È così che i liberal combattono le loro guerre sporche.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e Direttore del Centro Studi Russell Kirk