Obama non dovrebbe sacrificare gli alleati per accontentare la Russia
07 Marzo 2009
Lunedì scorso il New York Times ha riferito di un messaggio scritto dal presidente americano Barack Obama al presidente russo Dmitry Medvedev per suggerirgli di riconsiderare la posizione di Mosca sul programma nucleare dell’Iran: se lo avesse fatto, allora gli Stati Uniti avrebbero potuto riconsiderare la possibilità di sospendere i piani per la creazione di un sistema di difesa missilistico in Polonia e di una stazione-radio nella Repubblica Ceca. Ma dalla leadership russa è arrivato un secco rifiuto alla mano tesa da Obama. Medvedev ha affermato che Mosca è ben disposta ad intavolare discussioni sulla difesa missilistica, a patto che non siano però collegate alla sua politica nei confronti di Teheran.
Troppo spesso ogni nuova amministrazione americana tende ad attribuire il fallimento della politica dell’impegno e del dialogo a ragioni legate ai suoi predecessori piuttosto che ai suoi avversari. E questo vale anche per Obama. Ma lanciarsi in iniziative diplomatiche, sebbene con tutte le migliori intenzioni, potrebbe avere costi molto alti.
Il quid pro quo proposto da Obama alla Russia potrebbe avere un impatto profondo sulla NATO. Fondata nel 1949, come un’alleanza collettiva di difesa contro l’Unione Sovietica, la NATO ha attraversato i continenti e l’Oceano Atlantico.
Eguale Protezione
Tuttavia, affinché una difesa collettiva potesse funzionare, il presidente Harry S. Truman stabilì che tutti i membri della NATO dovessero partecipare alla difesa in grado uguale. L’Europa occidentale non sarebbe stata semplicemente un’estensione strategica degli Stati Uniti, ma ne avrebbe condiviso lo stesso livello di protezione. La NATO ha registrato una continua espansione nel corso degli anni. La Grecia e la Turchia sono entrate a farne parte nel 1952; la Germania occidentale nel 1955; e la Spagna nel 1982. Con la caduta della cortina di ferro, la NATO si è poi spostata verso est. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca sono diventati suoi membri nel 1999, mentre cinque anni più tardi è toccato a Slovenia, Bulgaria, Romania e Stati baltici.
Gli stati dell’Europa centro-orientale sono sempre stati molto sensibili al fatto di sentirsi considerati come membri di secondo piano sia all’interno dell’Unione europea che della NATO. Man mano che il governo russo si mostrava sempre più aggressivo nella sua ostilità verso la stazione-radio e la base antimissili balistici, alcuni diplomatici hanno lanciato l’idea di costruire quegli impianti nei membri di vecchia data della NATO, come l’Italia e il Regno Unito. L’ex presidente George W. Bush si è giustamente opposto ad un compromesso del genere, proprio per rimarcare come ogni membro della NATO fosse uguale all’altro, e come l’Europa orientale non fosse semplicemente un’estensione strategica.
E per rendere ben chiaro questo punto, sia Praga che Varsavia hanno deciso ospitare tali impianti, malgrado la considerevole opposizione interna. Smantellare completamente la copertura antimissili balistici europea, in effetti, avrebbe relegato la difesa missilistica di primo piano nel Nord America, dove si trovano ancora i primi radar di avvertimento e i missili di difesa in Canada, Alaska, e negli Stati Uniti continentali.
Se Obama e i suoi collaboratori hanno lasciato intendere di sostenere un ritorno al realismo in politica estera, il loro effettivo approccio diplomatico rivela un idealismo alquanto pericoloso. L’era di Obama sarà pure iniziata lo scorso 20 gennaio, ma né Mosca né Teheran seguono il calendario politico statunitense. Non è possibile pensare semplicemente di “azzerare” le relazioni.
Interessi comuni
Per il primo ministro russo Vladimir Putin, realismo significa massimizzare il potere della Russia. L’obiettivo del premier non è quello di mantenere buone relazioni con l’Occidente, quanto piuttosto quello di riportare Mosca alla guida di un impero informale, che si estenda ai confini dell’ex Unione Sovietica. E proprio in quest’ottica, Putin sembra convinto che assicurare un sostegno al programma nucleare iraniano per Mosca significhi porsi su un sentiero doppiamente vincente, su due diversi fronti. Da una parte, il sostegno nucleare all’Iran ha fruttato miliardi di dollari alla Rosatom, l’agenzia di stato russa del settore nucleare. Le vendite militari russe – sia dirette che incanalate attraverso la Bielorussia – sono la ciliegina sulla torta. Dall’altra parte, nella remota eventualità che gli Stati Uniti attacchino militarmente l’Iran, il prezzo del petrolio salirà alle stelle, portando la debole economia della Russia fuori dalla recessione.
Allo stesso modo, anche gli ufficiali iraniani vedono gli Stati Uniti con le spalle al muro. L’11 febbraio 2008, durante il suo discorso per il 29° anniversario della Rivoluzione Islamica, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad si è espresso così: "Dichiaro ufficialmente che l’Iran è diventato una vera e propria superpotenza…. Posso ben affermare a voce alta che l’era dell’imperialismo e dei soprusi statunitensi è giunta al termine".
Stando così i fatti, sembra essere ormai troppo tardi per stringere un accordo come quello proposto nel messaggio di Obama a Medvedev. Il 27 febbraio, durante un discorso ufficiale nella Repubblica Islamica, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, una delle figure oggi più rilevanti in Iran, ed un tempo tra gli obiettivi degli Stati Uniti, ha dichiarato: "Anche se gli esperti russi non dovessero completare l’impianto nucleare di Bushehr, saranno gli esperti iraniani a portare a termine il lavoro".
Obama potrebbe vedere nella sua offerta alla Russia un gesto di pragmatismo, ma ogni azione crea un precedente. I paesi al fianco degli Stati Uniti preoccupati che Washington possa sacrificare i suoi alleati per ragioni di convenienza diplomatica, potrebbero domandarsi se oggi le alleanze poggiano solamente su questioni di interesse, oppure se contano ancora i valori condivisi e la storia passata. Se, dopo tutto, l’antagonismo russo costringe gli Stati Uniti a fare concessioni sulla Polonia e sulla Repubblica Ceca, allora perché non accrescere l’aggressività della Russia nel Caucaso, nell’Asia centrale e nella Penisola coreana? Se l’amministrazione Obama fa intendere che Polonia e Repubblica Ceca sono sul tavolo delle trattative, perché non dovrebbero esserci anche Ucraina e Georgia? E perché la Cina non dovrebbe aspettarsi di poter negoziare su Taiwan, o l’Iran – altro obiettivo che Obama desidererebbe coinvolgere nel dialogo – non dovrebbe avanzare richieste su Israele?
La diplomazia dovrebbe rappresentare sempre una strategia di prima scelta. Ma Obama deve capire che nell’esercizio dell’arte diplomatica avere a che fare con delle dittature è ben diverso che trattare con nazioni democratiche. Mentre le democrazie possono essere influenzate con valori ed incentivi, modificare il comportamento delle autocrazie spesso richiede atti di coercizione ben più complessi, certamente al di là delle belle parole e dei concetti idealistici. Se Washington vuole mantenere la sua forza, allora anche le sue alleanze devono rimanere forti. La Casa Bianca deve imparare che il modo migliore per garantire la sicurezza è supportare i propri alleati, non trattarli come oggetti su cui confezionare accordi.
© Radio Free Europe/Radio Liberty
Traduzione Benedetta Mangano