Obama ora deve governare e la speranza non gli basterà più
22 Novembre 2008
Sono stati versati oceani d’inchiostro di china, inchiostro di stampante e inchiostro virtuale per celebrare l’ascesa di un uomo di colore alla presidenza degli Stati Uniti. Abbiamo letto, e riletto, della natura storica del trionfo di Obama, dei nuovi elettori che ha contribuito a portare alle urne, dei giovani che ha ispirato e della partecipazione, il 4 novembre, del più ampio numero di elettori nella storia americana. Ci è stato detto che, in virtù della natura decisiva della vittoria di Obama e dell’accresciuto potere del suo partito in entrambe le camere del Congresso, è iniziata l’alba di una nuova era politica. Quel che è accaduto è stato più di un’elezione: è stato, per citare il democratico Lanny Davis sul Wall Street Journal, “il riallineamento Obama”, soltanto il sesto di momenti del genere nella storia americana (gli altri sono stati le elezioni del 1800, del 1828, del 1860, del 1932 e del 1980).
Che il 4 novembre abbia segnato la fine categorica di un periodo della storia americana e il non meno categorico inizio di un altro è un’affermazione della quale nessuno sembra dubitare. Di fatto, Obama è il primo democratico ad aver conquistato una netta maggioranza dopo Jimmy Carter nel 1976 e lavorerà con un Congresso democratico che non ha fatto che crescere in potenza grazie in parte anche all’entità della sua vittoria. Considerate le emozioni generate dall’Election Day e la comprensibile esultanza dei vincitori, potrebbe sembrare rozzo dubitare che si sia verificato un cambiamento ideologico e partigiano su larga scala. E tuttavia, non si può fare a meno di notarlo, nel momento in cui s’arriva a dover descrivere come questa nuova era dovrebbe essere in realtà, ecco che il possente oceano d’inchiostro celebrativo evapora e si trasforma in una pozzanghera.
Come candidato nel corso di due anni spossanti, Obama ha ristretto il proprio messaggio a un punto altamente emotivo e preciso come un raggio laser: il cambiamento. Tale cambiamento suggerito aveva (e ha ancora) due componenti, una politica e l’altra spirituale.
Da un punto di vista politico, il cambiamento promesso da Obama era innanzitutto un cambiamento da qualcosa. Da otto anni di George W. Bush e del governo della destra che s’è voluto far passare per corrotto, incompetente e aggressivo; da cinque pesantissimi anni e mezzo di guerra in Iraq; dalle politiche faziose di Washington dove le preoccupazioni di una middle class in ambasce sono state ampiamente dimenticate; e dall’agenda sociale della destra che molti, in particolare le persone sotto i trent’anni, si diceva considerassero dittatoriale.
Nei primi mesi della sua campagna elettorale Obama ha agito specificatamente come un agente di cambiamento all’interno dello stesso Partito democratico. Sia Hillary Clinton che John Edwards, i suoi unici rivali impegnativi per la nomination presidenziale, hanno votato in Senato nel 2002 per autorizzare la guerra in Iraq. Nello stesso anno, al contrario, l’allora senatore dello Stato dell’Illinois Barack Obama aveva tenuto un solo discorso contro la guerra. Cinque anni più tardi, quando era in corsa come il candidato contro la guerra, Obama andava promettendo ai propri compagni di partito un cambiamento dall’idea che, per essere tenuti in seria considerazione come candidati nazionali, i democratici ambiziosi avessero bisogno di mostrare aggressiva risolutezza e disponibilità all’uso della forza.
Dalla metà del 2008 Obama trovò utile modificare questo atteggiamento propugnando uno spostamento delle risorse militari dall’Iraq in Afghanistan. Ma anche questo cambiamento fu un cambiamento rispetto a qualcosa, una mossa tattica per allontanare il tema del discorso dallo straordinario successo del surge in Iraq e del conseguente profilarsi della vittoria in un conflitto nel quale in precedenza era sembrato impossibile vincere.
Questo aspetto, a sua volta, mette in evidenza un elemento ancor più oscuro e pressante nella promessa fatta da Obama di un cambiamento di natura politica. Quella promessa è stata un mezzo per imbracare e canalizzare l’energia negativa, potente ma dispersiva, che si era generata contro Bush e il partito repubblicano durante l’anno precedente. L’elezione di Obama ha ratificato la validità di tale strategia. Benché tutto lasci pensare che George W. Bush abbia vinto la guerra in Iraq, la vittoria elettorale di Barack Obama dimostra in modo definitivo come Bush abbia perso la guerra nelle menti e nei cuori del popolo americano, e che per giunta l’abbia persa con una disfatta.
Qui, inoltre, va notato un ulteriore aspetto. La promessa di cambiamento di Obama offriva implicitamente anche la prospettiva di una fuga dalla sgradevolezza che era arrivata a dominare il nostro discorso nazionale. Da Monica Lewinski alla battaglia per l’impeachment di Clinton, dalla lotta tra Gore e Bush sulla Florida sino alla rabbia che era esplosa tra le schiere della sinistra nell’intensificarsi del conflitto iracheno e che, nei sei anni successivi, non ha mai smesso di bollire, gorgogliare e debordare. In tutto ciò, di fatto, la temperatura di cottura della politica americana è stata al calor bianco. L’atteggiamento mellifluo e tranquillo di Obama lo designa come uno degli individui più freddi negli annali della politica statunitense. Per essere eletto aveva bisogno del calore di un vulcano; ma sconfiggendo i repubblicani ha dato agli aggressori retorici quello che cercavano disperatamente, mentre al tempo stesso spargeva balsamo sulla coscienza di quegli indipendenti che magari avevano votato per i repubblicani nel 2004 ma che forse stavolta avevano deciso di comportarsi diversamente seguendo l’impulso di agire per la pace.
Da un punto di vista spirituale, il cambiamento promesso da Obama è stato ancor più radicale e ancor più considerevole. Doveva essere un cambiamento dell’essenza americana, della natura della consapevolezza che la nazione aveva di se stessa. Come ha affermato nel suo victory speech la notte delle elezioni
Se c’è qualcuno che dubita ancora che l’America sia un posto in cui tutto è possibile, che si chiede se il sogno dei nostri fondatori sia ancora vivo ai nostri tempi, che ancora mette in dubbio la forza della nostra democrazia, questa notte è la risposta… È la risposta data da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, bianchi, neri, ispanici, asiatici e nativi americani, omosessuali e eterosessuali, disabili e non disabili… È la risposta che ha condotto coloro ai quali, per troppo tempo e da troppa gente, è stato detto di essere cinici, timorosi e dubbiosi su ciò che potevamo raggiungere a mettere le mani sull’arco della storia e a tenderlo ancora una volta verso la speranza di un giorno migliore… Il cambiamento per l’America è arrivato.
In effetti allora Obama si stava presentando, e si sta ancora presentando, non come un agente di cambiamento ma come il cambiamento stesso, la sua incarnazione, la sua personificazione. In questo senso l’era di Obama è già arrivata. È già completa. Nei termini che egli stesso ha fissato, non potrà fare nulla di più importante come presidente di quanto non abbia già fatto con l’essere eletto presidente.
Finora, dal punto di vista dei suoi supporters, questo sembra certamente essere più che abbastanza. In effetti, il cambiamento spirituale promesso e personificato da Obama ha dato alla sua corsa verso la Casa Bianca la qualità che tutte le grandi campagne elettorali offrono ai supporters. E cioè l’idea che il duro lavoro nel quale saranno impegnati come volontari e il voto per dare il quale dovranno stare in fila per ore non sono che il preludio di un risultato positivo e persino carico di gioia.
E non vale solo per i suoi supporters. Anche da un punto di vista nazionale è innegabilmente piacevole notare come le elezioni del 2008 riflettano il crescente ampio respiro della nazione americana. Basti pensare a un uomo come Obama, che se nel suo anno di nascita fosse stato adulto avrebbe dovuto affrontare insormontabili difficoltà per dare il proprio voto in Stati come il North Carolina o la Virginia. Quarantasette anni più tardi, quell’uomo ha conquistato questi due Stati come candidato presidenziale. La barriera più duratura e moralmente impegnativa è stata infranta, trascesa.
Ma anche nella descrizione di Obama, la sua elezione riflette soltanto questo cambiamento. Non è la ragione che lo causa. Né ci dice nulla su che cosa dovremmo cambiare. È per questo motivo che c’è bisogno di ritornare alla politica.
È possibile vedere la genialità della strategia politica di Obama, la “strategia di cambiamento rispetto a qualcosa”, contemplando quel che l’elezione ha rivelato riguardo alla condizione del Partito repubblicano. Sembra che Obama abbia vinto con un margine di 53 a 46, che guarda caso è più o meno esattamente lo stesso margine collettivo delle elezioni di medio termine del 2006, quando i democratici strapparono di nuovo Camera e Senato al controllo dei repubblicani.
Il ripudio del Grand Old Party è stato inequivocabile. John McCain ha guidato un partito il cui ascendente sulla nazione si era drammaticamente ridotto durante il secondo mandato di George W. Bush. Nel 2004 il 37 per cento degli elettori aveva affermato di essere repubblicano; nel 2008 quel numero è sceso al 32 per cento, una caduta vertiginosa nella cosiddetta “identificazione con il partito” su una scala che non si vedeva dalle elezioni post – Watergate del 1974.
McCain non è riuscito nell’impresa di vincere negli otto Stati che Bush aveva conquistato nel 2004, compreso l’Indiana, feudo repubblicano nelle ultime dieci elezioni presidenziali. McCain, inoltre, non è riuscito a vincere in nessuno Stato del Nordest, dell’Upper Midwest e del Pacific West. Barack Obama, invece, ha conquistato Stati in ogni regione del Paese.
Dopo che Ronald Reagan aveva consolidato l’ascendente repubblicano nel Sud una volta democratico, era stato ufficialmente proclamato che il Grand Old Party aveva creato una sorta di “serratura elettorale” tanto inespugnabile che anche Bill Clinton, uscito vincitore nel 1992, ce l’aveva fatta – come aveva affermato il suo consulente James Carville – solo perché lì aveva ottenuto un buon raccolto. Un successo che, oltretutto, era stato ampiamente dovuto alla presenza, nella corsa elettorale del 1992, del candidato indipendente Ross Perot, che sottrasse voti cruciali a George W. Bush in quegli Stati del Sud che altrimenti il candidato repubblicano avrebbe vinto senza versare neanche una goccia di sudore.
L’assenza di un simile candidato indipendente nel 2000 restaurò la “serratura” repubblicana sul Sud, e il risultato elettorale del 2004 sembrò darvi anche una doppia mandata. McCain, poi, ha messo la chiave di questa serratura nel posto sbagliato. In Virginia, uno Stato in cui Bush aveva vinto per dieci punti, McCain è stato sconfitto per cinque, facendo registrare, in appena quattro anni, un’inversione di quindici punti praticamente senza precedenti. Bush aveva vinto in North Carolina per quasi tredici punti percentuali; McCain ha perso per un quarto di punto.
Alla Camera, la minoranza repubblicana fece assistere a un declino numerico da 25 seggi a 177, più o meno esattamente dove il Grand Old Party si era trovato prima di prendere il controllo del Congresso nel 2004. Al Senato, il numero dei repubblicani sembra essere sceso da 49 a 42. Ciò porta i democratici vicini in modo allettante all’acquisizione di una maggioranza di 60 seggi “cloture-proof”, che li metterebbe cioè in condizione di chiudere il dibattito su qualsiasi proposta di legge a loro scelta e condurla verso un certo voto. È possibile che ce la facciano ad ottenere quella maggioranza nelle elezioni di medio termine del 2010. A quel punto i democratici saranno in grado di far passare le leggi al Senato a proprio piacimento per la prima volta in oltre trent’anni.
Eppure, dai risultati delle elezioni del 2006 o di questa appena conclusa, è sorprendente quanto pochi dati ci siano per confermare che la scarsa considerazione in cui è tenuto il Grand Old Party si traduca in un ampio supporto per il Partito democratico. Secondo il sito internet Pollster.com, il tasso di approvazione del Congresso a maggioranza democratica è sceso dal 27 per cento del giorno dell’elezione del 2006 al 15 per cento di poco prima dell’Election Day del 2008, con una caduta proporzionale del 44 per cento. E questo mentre, come abbiamo visto, tra il 2004 e il 2008 le cifre riguardanti l’identificazione degli elettori con il Grand Old Party sono cadute di cinque punti, o del 13 per cento, e le stesse cifre riferite al Partito democratico sono salite di appena due punti, o del cinque per cento. In altre parole, il numero degli elettori che hanno smesso di essere repubblicani ha superato di due e mezzo a uno quello degli elettori che sono divenuti democratici.
Ancor peggio per i repubblicani, arrivano alcuni dati che sembrano piovere anche sulla parata di Obama. Un rapporto presentato da Curtis Gans del Center for the Study of American Electorate evidenzia che mentre la percentuale di aventi diritto al voto che hanno dato la propria preferenza al Partito democratico è cresciuta quest’anno di qualche punto, come è accaduto in tutte le elezioni quadriennali dal 1980, il numero di aventi diritto che hanno votato per il Partito repubblicano è sceso dell’1,3 per cento. Nel complesso, da un punto di vista nazionale il Grand Old Party ha perduto ogni decimo di voto che aveva ricevuto nel 2004. Dall’altro lato, e a dispetto della congettura che Obama sia stato fatto schizzare come una freccia alla Casa Bianca da un’affluenza alle urne senza precedenti che avrebbe visto protagonisti milioni e milioni di nuovi elettori, l’elettorato del 2008 sembra essere stato, in proporzione, più o meno esattamente della stessa entità rispetto al 2004.
Quello cui stiamo assistendo, in altre parole, è una fuga in massa dal Partito repubblicano ma non un’epocale inversione di marcia di natura partigiana o ideologica. O, almeno, non ancora. Come scrive Gans, “se pure questo appuntamento elettorale non ha in se stesso riallineato la politica statunitense dopo 28 anni di dominio repubblicano, ha di certo presentato la possibilità che un cambiamento del genere si verifichi”.
E tutto ciò, ovviamente, presenta implicazioni politiche interessanti. I democratici al Congresso, energizzati da un rinnovato potere e da un presidente del proprio partito, desidereranno approvare ogni genere di legge che rappresenti una rottura decisiva rispetto alle politiche che hanno dominato Washington dal giorno in cui è entrato in carica George W. Bush. Così facendo, si troveranno armati della consapevolezza che gli americani affermano di nutrire fiducia nei democratici più che nei repubblicani su qualsiasi questione che la nazione si trova davanti, fatta eccezione per il terrorismo.
Non è necessario stilare una lista dei punti che verranno portati al prossimo Congresso perché peraltro sono troppo numerosi. Inoltre molti di essi sono politicamente provocatori. Ed è qui che c’è il nodo. Perché, nel corso dei dodici anni (dal 1994 al 2006) durante i quali il Grand Old Party ha tenuto le redini del potere a Capitol Hill, la leadership del Partito repubblicano al Congresso era posizionata molto più a destra di quanto non stesse la nazione nel suo complesso, e così oggi la leadership del Partito democratico sta considerevolmente più a sinistra su quasi ogni questione. Dall’aborto (materia nella quale alcune restrizioni sono straordinariamente appoggiate dagli elettori) alle armi (la cui detenzione è straordinariamente supportata) sino alla domestic surveillance (i cui sforzi per la prevenzione di futuri attacchi terroristici godono di un appoggio straordinario).
L’exit poll nazionale del 4 novembre, i cui dati grezzi apparivano estremamente orientati a favore degli elettori di Obama, mostravano ancora chi si era definito conservatore surclassare di 12 punti percentuali chi si era definito liberale. Certo, questi numeri non offrono grande consolazione a chi si posiziona a destra del centro perché, secondo tutti gli indici, le opinioni di coloro che si autodefiniscono “moderati”, e che hanno costituito la maggioranza negli exit poll, tendono a sfumare in una direzione più liberale oggi di quanto non accadesse quindici anni fa. Tuttavia, presi con i terribili indici di gradimento del Congresso, i numeri suggeriscono di fatto che uno spostamento di massa verso una direzione disinvoltamente liberale costituirebbe una minaccia significativa per gli sforzi del Partito democratico di conseguire un’alterazione durevole delle dinamiche politiche simile a quella che seguì all’elezione di Ronald Reagan nel 1980.
Inoltre, benché sia molto invitante dare la definizione di “momento cardine” a ogni dato punto nel tempo della politica, un momento in cui ciò che verrà dopo sarà radicalmente diverso da quel che c’era prima, la verità è che questi presunti riallineamenti sono creature molto particolari.
Il riallineamento repubblicano che era cominciato nel 1980 non seguì quasi mai una linea retta. In quell’anno Ronald Reagan sconfisse Jimmy Carter per dieci punti e portò dentro dieci senatori. L’anno seguente firmò il più grande taglio alla pressione fiscale della storia americana. Poi, nel 1982, firmò il più alto aumento delle tasse di tutta la storia americana e il suo partito perse 26 seggi alla Camera dei rappresentanti. Nel 1984 Reagan conquistò 49 Stati, e fu la più imponente valanga di voti della storia americana. Due anni più tardi il suo partito perse il controllo del Senato.
George H. W. Bush vinse per otto punti nel 1988 e venne sconfitto nel 1992 per una percentuale di voto più bassa di quella che Barry Goldwater aveva ottenuto nel 1964; nel 1994 i repubblicani conquistarono 52 seggi alla Camera e otto seggi in Senato e inaugurarono l’era della “Rivoluzione Gingrich”. Un’era che durò in tutto nove mesi e che venne condotta a una stridente frenata dalla chiusura del governo del 1995 e dalla restaurazione delle fortune politiche di Bill Clinton. Quando George W. Bush divenne presidente nel 2000, i repubblicani detenevano una maggioranza di appena tre seggi alla Camera dei rappresentanti.
L’elezione del 2000 offre un esempio particolarmente istruttivo del modo in cui questo presunto riallineamento dei 28 anni fosse da un punto di vista politico un affare estremamente ambizioso. Mentre George Bush finiva per prevalere grazie a qualche foglietto di carta in Florida, da un punto di vista nazionale aveva perduto con Al Gore per un mezzo milione di voti. Cosa ancor più importante, il candidato verde Ralph Nader ricevette tre milioni di voti, a significare che nel 2000 il voto di sinistra era più ampio di tre punti percentuali rispetto a quello repubblicano. In quella stessa elezione i democratici strapparono ai repubblicani quattro seggi in Senato.
Gli attentati dell’11 settembre sbalzarono gli Stati Uniti subitaneamente verso destra e i repubblicani dominarono i due successivi appuntamenti elettorali nel 2002 e nel 2004. Ma il fatto di aver mancato l’obiettivo di una veloce vittoria in Iraq, insieme a una più generale sensazione che il presidente fosse impreparato e il Grand Old Party corrotto, fece fare all’elettorato un balzo indietro. Si potrebbe persino affermare che i risultati del 2006 e del 2008 abbiano ripristinato la direzione ideologica sinistrorsa che era apparsa evidente nel 2000 e che sarebbe benissimo potuta risalire a galla per rovesciare George W. Bush se non fosse stato per la sua galvanizzante risposta all’assalto terroristico mosso agli Stati Uniti.
E ancora, non si discute sul fatto che Ronald Reagan abbia alterato il corso della politica negli Stati Uniti. Lo ha fatto perseguendo un piano per il cambiamento pratico, specifico ed estremamente ambizioso che era stato stilato nel dettaglio durante il suo tentativo, coronato dal successo, di giungere alla presidenza. Una volta in carica, lavorò per ricostruire l’esercito americano e per ristabilire il vantaggio statunitense sull’Unione Sovietica tramite una serie di mosse che accelerarono il crollo di un impero, che egli, praticamente da solo, credeva potesse essere sconfitto. Diresse una radicale modernizzazione del regime fiscale prima riducendo i tassi marginali e poi semplificando il codice fiscale. Poi, in un atto che anticipò la promessa di Obama di elevare lo spirito americano, cercò di ripristinare la fiducia nazionale e un sentimento di orgoglio per il paese con la promessa di dare nuovo vigore alle istituzioni americane chiave di “famiglia, lavoro e vicinato”.
Reagan fu fortunato anche con i suoi nemici, i quali ritenevano lui popolare e duratura la sua eredità grazie alle sue doti oratorie, al fascino personale e all’indole solare. Sono stati d’aiuto, di grande aiuto. Ma avrebbero avuto ben poco significato senza la sua “visione dall’alto”, senza la determinazione a metterla in atto e senza i risultati che hanno dimostrato la saggezza del suo percorso.
Barack Obama, è superfluo ricordarlo, arriva alla presidenza con un’agenda assolutamente non comparabile, per non dire che vi arriva senza alcuna agenda. In verità Obama ha avuto posizioni ufficiali a bizzeffe, ma durante la corsa verso la Casa Bianca ha fatto in modo di contraddirne le promesse e gli assunti più sostanziali. Ha proposto significativi incrementi della spesa, ma poi, alla luce della crisi, ha detto che tali incrementi potrebbero dover essere rimandati. Ha detto qualcosa di simile anche riguardo al suo programma fiscale, che prevede alcuni tagli per la middle class e un sostanziale aumento della pressione fiscale per gli americani che guadagnano più di 250 mila dollari l’anno. Ha appoggiato i matrimoni omosessuali, poi vi si è opposto. Si è opposto alla welfare reform, e poi ha detto che non avrebbe avversato la decisione di Clinton di trasformarla in legge. Senza contare che ha passato più di un anno a tornare sui propri passi su quando aveva manifestato la disponibilità a incontrarsi, senza precondizioni, con i nemici degli Stati Uniti.
Tutto questo cambiamento – dovremmo chiamarlo così? – potrebbe esser visto come una “crescita” di Obama. Vale a dire che, mentre gli si faceva sempre più chiaro che di fatto avrebbe potuto ritrovarsi alla Casa Bianca, ha cominciato a capire che si stava appesantendo del fardello di una “lista della spesa” fatta di promesse che sarebbe stato impossibile mantenere. Il tutto potrebbe anche esser visto come il semplice manovrare di un candidato che cerca di apparire il più possibile allettante in un’elezione generale dopo aver passato un anno a correre verso sinistra in un processo di partito, come accadeva in quello democratico, dominato dalla sinistra.
Oppure Obama potrà decidere di tener ferme le congetture di fondo che ci si aspetterebbe da un uomo con la sua biografia di adulto L’uomo che, da quando aveva diciott’anni, ha passato la vita a far dentro e fuori dalle università dell’élite sinistrorsa, il community organizer dagli obiettivi politici dimostrabilmente radicali, il parrocchiano di una chiesa guidata da un pastore estremista antiamericano che officiò il suo matrimonio e battezzò le sue figlie e dal quale Obama ha preso la frase “l’audacia della speranza” per il titolo del suo secondo libro, il senatore di uno dei distretti maggiormente di sinistra in tutti gli Stati Uniti. E via discorrendo.
Sappiamo bene cos’è Barack Obama. È una figura politica innovativa, uno spartiacque umano, un oratore dal talento superiore, un genio della politica. Ma non sappiamo chi è. Lo scopriremo soltanto quando diventerà presidente. Se il suo obiettivo è essere un leader che guidi un riallineamento che possa riportare il Partito democratico a una posizione di dominio politico e ideologico, dovrà prendere accuratamente le misure di un paese che ha perduto la fiducia nei suoi avversari ma che non ha ancora mostrato fedeltà ai propri “soci sostenitori”.
L’America potrà non essere una nazione “di centrodestra”, ma non è neanche una nazione “di centrosinistra”. Forse Obama crede di poterla rendere tale, ma gli effetti del liberalismo americano di sinistra che sopravvivono ancora da qualche parte nel sistema nervoso della nazione danno motivo di credere che una scivolata a sinistra non sia il cambiamento per il quale l’America ha votato.
La notte delle elezioni, con le sue due incantevoli bambine che lanciavano sorrisi da un milione di watt alla prospettiva di quel “nuovo cucciolo che verrà con noi alla Casa Bianca”, Barack Obama ha detto alla calca riverente di fronte a lui e alle decine di milioni di persone che per lui avevano votato che tutti loro avevano “scelto di mettere le mani sull’arco della storia e tenderlo ancora una volta verso la speranza di un giorno migliore”. Il giorno adesso è sorto sopra di noi, e la speranza, per quanto audace, non sarà più sufficiente.
© Commentary Magazine
Traduzione Andrea Di Nino