Obama presidente ‘post-razziale’? Il caso di Trayvon Martin dice il contrario
03 Aprile 2012
di E.F.
Doveva essere la presidenza post-racial, post-razziale quella di Barack Obama, il primo presidente nero nella storia nazionale degli Stati Uniti. Lui, il rassembleur dei tanti volti etnico – religiosi del melting pot urbano americano, andato al potere paradossalmente grazie all’elettorato bianco indipendente che nel 2008 lo ha preferito a qualsiasi altro contendente nella corsa alla Casa Bianca.
A distanza di poco più di tre anni dal giuramento però – per quanto dispiaccia per l’occasione persa, una delle tante – è difficile negare che il presidente Obama mostri un irrefrenabile desiderio di gettarsi con tutti e due i piedi sui casi ‘razziali’ alla ribalta nelle cronache, soprattutto quando di mezzo ci sono i neri americani. La storia della morte di Trayvon Martin, il diciassettenne ferito a morte da George Zimmerman, bianco-ispanico di ventotto anni, lo scorso 26 Febbraio in Florida, è uno di questi casi.
La dinamica dei fatti che ha condotto il giovane diciasettenne nero alla morte non è ancora chiara e le indagini sono adesso nelle mani dello State attorney della Florida, Angela Corey, la quale in veste di special prosecutor è stata messa sul caso niente meno dall’attuale governatore dello Sunshine State, Rick Scott. Quest’ultimo, annusata la strumentalizzazione mediatica a cui il caso è stato piegato, complici i media obamiani tra cui i network ‘soliti sospetti’ Msnbc e Cnn, è entrato nel caso.
Si badi che la Florida è uno degli stati in cui vige una delle leggi ‘stand-your-ground’, che tra l’altro sanciscono che chi è vittima di un’aggressione in un luogo ove l’aggredito ha diritto di stare – un luogo su tutti, casa propria – non vi sia l’obbligo per l’aggredito di fuggire cercando un rifugio sicuro, ma al contrario esse concedeno all’offeso il diritto di restare e colpire, anche mortalmente, chi si introduce illegalmente nella proprietà.
Sarà un giudice a stabilire se George Zimmerman dovrà essere processato per omicidio o meno, e una prima verità giudiziaria, se l’indagato diverrà imputato, emergerà solo tra qualche mese (non anni: in America i processi monstre pluridecennali à l’italienne sono l’eccezione).
Quel che vale la pena raccontare è invece il processo mediatico in corso nei media Usa, con buona pace della Casa Bianca e della strategia elettorale ‘tutto fa brodo’ – racial politics, politica razziale compresa. Quando la scorsa settimana Obama è andato in conferenza stampa all Casa Bianca, per presentare il suo uomo per la World Bank, e un giornalista ha chiesto al presidente (qualcuno dell’ufficio del Press secretary di Obama ha approvato quella domanda?) che cosa pensasse del caso Trayvon Martin, lui, il presidente, candidamente, ha tra l’altro risposto: “Se avessi un figlio, assomiglierebbe a Trayvon”.
Non proprio un commento post-racial o ‘oltre-razziale’, che si è tirato dietro le reazioni al vetriolo (non proprio infondate) di uno dei candidati alla primarie Repubblicane per la presidenza, Newt Gingrich, che ha attaccato il presidente accusandolo di dare risalto alla vicenda perché in ballo c’è un ragazzino nero.
La potenza di fuoco messa in campo dai media liberal e progressisti Usa nella vicenda è gigantesca. La strapopolare presentatrice nera, Oprah Winfrey, ha parlato dell’uccisione di Trayvon Martin in questi termini: “E’ una tragedia, è una vergogna”. Mentre il reverendo di sinistra, nero, Al Sharpton, che sulla MSNBC conduce un programma, sta portando avanti con l’assenso della dirigenza del network una campagna colpevolista contro Zimmerman estremamente virulenta.
E ancora, sulla CNN, Roland Martin, commentatore nero della rete, è giunto di fatto a dare dei razzisti ai poliziotti che per primi sono sopraggiunti sul luogo dell’incidente Trayvon-Zimmerman. Questo in un paese, come gli Stati Uniti, ove casi di questo genere possono degenerare facilmente in violenza diffusa: come dimenticare il caso Rodney King, il nero bastonato nel 1992 da poliziotti del dipartimento di polizia di Los Angeles e dal quale discesero degli scontri urbani che fecero 58 morti e più di 1 miliardo in danni alla collettività.
A prescindere da come la si pensi sulle tematiche di arm control e sulle leggi ‘stand your ground’, la giustizia televisiva e colpevolista sul caso Martin non solo è la negazione dello stato di diritto, in America considerato un bene prezioso, ma rischia di distruggere la vita di Zimmerman, un uomo a oggi solo indagato e non imputato di omicidio.
Interessante a questo proposito l’uso della parole. Come ha fatto notare il giornalista Bernard Goldberg ospite del noto segmento della Foxnews, ‘O’Reilly factor’, George Zimmerman è spesso descritto dai media di sinistra come “white-hispanic” (l’uomo è effettivamente di madre peruviana e padre bianco). Retoricamente Goldberg si è chiesto: “Se Zimmerman avesse vinto il nobel per le scienze, quel “white”sarebbe apparso? I media di sinistra vogliono che il caso Trayvon Martin diventi parte del solito scontro tra bianchi e neri”.
Ma questo caso non è certo l’ultimo ‘racial’ sul quale sia scivolato (con premeditazione) il presidente Obama e il suo staff elettorale. Come dimenticare l’affaire del professore di Harvard, Henry Louis Gates jr, che ‘pizzicato’ a entrare in casa propria – le sue chiavi si erano incastrate nella serratura – fu arrestato dalla polizia perché, sostenne il professor Gates poi, "uomo nero in America”.
Al presidente Obama e al suo staff l’episodio non parve vero: Gates jr. fu invitato alla Casa Bianca, assieme al poliziotto che lo arrestò, James Crowley per un ‘beer summit’, il summit della birra, assieme allo stesso presidente, il vice-presidente Biden e il sergente Crowley, ‘l’aguzzino’ di turno. Correva l’anno 2009, i bei tempi dell’obamania.
L’America, tre anni dopo, è però un posto diverso. L’entusiasmo politico nei confronti del presidente Obama è svanito e un’amministrazione in deficit di risultati è disposta a giocare qualsiasi tipo di carta, anche quella razziale per l’appunto, non solo per tenersi fedele l’elettorato nero americano (più dell’80% dei neri americani dichiara di votare Democratico e nel caucus ‘afro-americano’ del Congresso c’è solo un eletto nero tra i Repubblicani, Allen West), ma anche per implicitamente colpevolizzare i bianchi e tenersi stretto quell’elettorato liberal e indipendente, sempre bianco, che di fronte ai fallimenti economici dell’amministrazione, potrebbe decidere di voltare le spalle ad Obama il Novembre prossimo e un one-term-president.