Obama ricorda all’America le sue responsabilità
21 Gennaio 2009
“Sono pieno di umiltà per il compito che ho di fronte”. Così ha iniziato il suo discorso inaugurale Barack Obama, anche se ad incepparsi durante il giuramento sulla Bibbia di Lincoln è il presidente della Corte Suprema John Roberts, non Obama. Il messaggio seguente e il tono generale del discorso sono infatti tutt’altro che umili. Non c’è un momento di incertezza quando dice che con lui “l’America è di nuovo pronta a prendere il suo posto di guida nel mondo”.
Il ringraziamento a Bush per il servizio prestato al paese e per la generosità dimostrata nella transizione è un gesto grazioso ma formale. Subito dopo Obama dichiara che questo è un giorno nel quale ricordare che cosa è l’America e cosa sono capaci di fare gli americani, non quelli che amano i piaceri e la ricchezza, ma quelli che lavorano sodo e si assumono dei rischi. L’invito è decisamente un incitamento a voltare pagina.
Pochi applausi fanno da contrappunto al suo breve discorso, ma non perché il pubblico di 2 circa due milioni di persone, che ha riempito ogni posto disponibile tra il Campidoglio e il Lincoln Memorial, non approva il messaggio. E’ che il discorso ha pochi slogan e molti concetti. La gente ascolta, attenta.
Obama promette di restaurare la fiducia nel governo, di correggere gli eccessi del mercato, di fare rispettare la legge e i diritti umani, di non svendere insomma gli ideali in cambio della sicurezza. Si rivolge direttamente al mondo musulmano per trovare un’intesa, perché l’America, dice, è amica di tutte le nazioni. Ma ai nemici del paese promette la sconfitta. Infine, chiama tutti i cittadini a inaugurare “un’era di responsabilità” e a servire la comunità, nazionale e non. Lavorare per la comunità arricchisce lo spirito, dice, ed è lo spirito, non la razza, il credo o il sangue che unisce l’America e la rende un grande paese.
Sono circondata da qualche migliaia di fortunati che hanno ottenuto il permesso di entrare nell’area riservata che si trova proprio sotto il palco presidenziale. La stragrande maggioranza è nera, le signore in pelliccia e gli uomini in cappotto nero, sembrano in divisa. Tra loro c’è anche il generale Wesley Clark con la moglie, che gli asciuga una candela dal naso con la sciarpa appena regalatagli dal presidente del Congresso Nancy Pelosi, mentre lui parla animatamente con gli amici e gli sconosciuti in cerca di una foto ricordo.
La temperatura è di circa 4 gradi sottozero e si muore di freddo, ma l’atmosfera è di grande festa e cameratismo. Scambio due chiacchiere con la signora Clark, che ancora sente il peso della sconfitta del marito nelle primarie del 2004. “Abbiamo perso perché non sapevamo nulla di come si fa politica – commenta ad una sostenitrice – chissà, se mio marito fosse stato candidato forse Bush non sarebbe stato rieletto una seconda volta”.
Il rimpianto è breve. La celebrazione sentita. Oggi si festeggia proprio la fine dell’era di Bush. In pieno spirito obamiano, nessuno fischia quando il presidente Bush e il suo vice Dick Cheney compaiono sul palco. Il silenzio è palpabile, tra l’ingente folla che evita di guardare gli schermi. Nessuna recriminazione, ha detto Obama. L’amministrazione uscente ha pochi minuti di vita e nessuno se la sente di protestare. Non meritano alcuna emozione, dice una signora del New Jersey.
Una giovane insegnante di Washington, una famiglia birazziale di Boston, e la pensionata di Fort Lauerdale si sentono tutti appagati. E’ chiaro che si tratta di una folla politica. Se sono sotto il Campidoglio è perché hanno contatti con i propri rappresentanti eletti. Ma più dell’incredibile novità storica dell’inaugurazione del primo presidente nero, quello che domina è il sollievo di aver ritrovato una guida. Con Obama il popolo americano si sente più rassicurato che esaltato.
Sarà perché Obama si è già messo al lavoro, anche prima di essere ufficialmente Presidente? Perché nella prima settimana della presidenza ci si aspetta decisioni importanti, come la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, il bando della tortura, e un piano di rilancio dell’economia dal valore di centinaia di migliaia di dollari?
In parte sì. Ma c’è dell’altro, meno misurabile e altrettanto importante, se non di piu’. Obama ha perfettamente compreso il bisogno di leadership e ispirazione necessario a risollevare l’America umiliata, demoralizzata, impoverita e spaventata che George Bush gli lascia in eredità. Il suo trionfale passaggio da minoranza razziale (uno come me, dice, sessant’anni fa non sarebbe stato servito in qualsiasi ristorante) a presidente del paese, viene retoricamente riaffermato, ma non è il tema centrale del discorso e della Presidenza Obama. Serve piuttosto da supporto al tema centrale.
Il successo personale di Obama si basa su una trama non particolarmente nuova per l’America. E’ nuova la lettura che ne dà il presidente, che usa la propria biografia non come conferma del proprio valore individuale, ma del valore dell’intero paese. L’America non è il regno del possibile per chi ne voglia approfittare – questo il messaggio di Obama – ma lo diventa, perché è fatta di individui che credono nell’uguaglianza, nella libertà e nel diritto di tutti ad essere felici.