Obama rischia di essere travolto dalla marea nera

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Obama rischia di essere travolto dalla marea nera

19 Giugno 2010

Due mesi dopo la fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma della British Petroleum nel golfo del Messico, la così detta marea nera rimane la principale preoccupazione per l’Amministrazione Obama. L’oil spin rischia di travolgere il presidente democratico e il suo partito a soli cinque mesi dalle decisive elezioni di mid term. Obama è stato tre volte in Lousiana, poi in Mississippi, Alabama e Florida, soltanto alcuni fra gli Stati minacciati dalla catastrofe ecologica. Ma i suoi viaggi sono serviti a ben poco. Martedì scorso, in uno Studio Ovale riempito di foto di famiglia, come a dire ho le redini della crisi e so dove condurvi, Obama ha parlato per venti minuti agli americani, tentando di scongiurare l’incubo della marea nera. “Faremo pagare la British Petroleum per il danno che ha provocato”, ha detto il presidente, assicurando poi tempi di bonifica del Golfo minori rispetto a quelli previsti e prospettando una strategia di emancipazione dall’olio nero. Ma la realtà è che Obama ha paura. Gli ultimi sondaggi sono a dir poco negativi: sette cittadini su dieci gli rimproverano “eccessi di cautela con la Bp”, mentre il 52 per cento degli intervistati ha già bocciato il suo operato. Joe Romm, autore del blog Climate Progress, dalle pagine di Foreign Policy spiega come il futuro della presidenza Obama “dipenda dalla capacità di convincere gli americani che l’Amministrazione sta facendo davvero tutto per frenare il disastro”. 

Obama rischia un tracollo di consensi e un repentino cambiamento della mappa congressuale, proprio come accadde a Jimmy Carter, anche lui democratico, più di trent’anni fa. Il 4 novembre del 1979 un gruppo di attivisti iraniani entrò nell’ambasciata americana a Teheran prendendo in ostaggio 52 dipendenti. L’opinione pubblica americana reagì con sdegno a una simile ostilità, e fu persino creata una trasmissione televisiva ad hoc per contare i giorni che gli americani restavano nelle mani dei rapitori. Il presidente Carter non riuscì a ottenerne per via diplomatica – e non – il rilascio e l’operazione Eagle Claw (Artiglio dell’Aquila) fallì miseramente. Due degli otto elicotteri, che avrebbero dovuto trasportare gli ostaggi, si scontrarono, provocando la morte di otto militari americani e di un civile iraniano. Così alle elezioni del 1980 Carter fu sonoramente sconfitto dal repubblicano outsider Ronald Reagan. Gli ostaggi furono liberati soltanto 444 giorni dopo, il 20 gennaio 1981, mentre il nuovo eletto giurava nelle mani del presidente democratico uscente. 

Obama conosce bene la storia. Tanto più che da qualche giorno in America c’è una trasmissione che segna il count-up dei giorni dall’esplosione della piattaforma della British Petroleum. Il presidente democratico, quello che si era presentato come l’Harry Potter che avrebbe risolto i problemi del Paese, si è ritrovato a perdere le staffe: “Chi devo prendere a calci nel sedere?” ha detto in un’intervista alla Nbc andata in onda in prima serata. Ovviamente Obama si riferiva a un responsabile della compagnia petrolifera inglese. Ma è un urlo che sa di impotenza, al limite anche di isteria, alla ricerca di un capro espiatorio contro la tragedia ecologica che ha colpito l’America: dal pozzo della British Petroleum dal 20 aprile a oggi sono fuoriusciti tra i dodici e i 25 mila barili di greggio al giorno. L’ira di Obama non fa sconti e la prima testa a cadere è stata quella di Elizabeth Birnbaum, capo dell’Us Minerals Management Service, l’agenzia americana che dà il via libera alle trivellazioni petrolifere. Birnbaum è stata licenziata dal presidente in persona con l’accusa di essere una carogna collaborazionista e altre teste cadranno molto presto. Qualche giorno fa, infatti, gli autorevoli Washington Post e New York Times denunciavano come Birnbaum e i suoi più stretti collaboratori abbiano ignorato per anni gli avvertimenti sui rischi ambientali nel golfo del Messico. 

Ma nessun licenziamento eclatante basterà a placare l’opinione pubblica. Obama lo sa e ultimamente l’ha sparata grossa. Accusato sia a destra che a sinistra di lentezze nella reazione alla catastrofe, il presidente ha paragonato la marea nera all’11 settembre. “Cambierà la psicologia del Paese”, ha detto in una lunga intervista all’americano The Politico, promettendo misure “coraggiose” per combattere l’oil spin. Un riferimento molto forte (forse troppo) che non è piaciuto ai familiari delle vittime degli attentati delle Twin Towers e del Pentagono, che, intervistati dal quotidiano newyorkese Daily News, non hanno esitato a definirlo “fuori luogo”. In realtà, dietro le dichiarazioni di Obama c’è una chiara strategia politica. Il paragone con l’11 settembre vorrebbe cancellare quello con l’uragano Katrina, sostenuto fin da subito da molti media, perché, se la risposta ad al Qaida ha un’accezione positiva nel linguaggio politico americano, l’uragano che si abbatté nel 2005 su New Orleans, proprio in Louisiana, evoca uno dei peggiori disastri del Paese. Di certo non sarà facile. Soltanto qualche giorno fa l’editorialista liberal del New York Times Frank Rich, ha definito il disastro della marea nera “peggiore di Katrina”, perché Obama ha cercato di “rimettere le decisioni ad altri, proprio come era successo per il testo della riforma sanitaria”. 

Il presidente ha pensato bene, quindi, di giocarsi la carta profetico-ambientalista. Ha invitato gli americani ad andare al mare “nelle spiagge che non sono e non saranno colpite dalla marea nera”. Allo stesso tempo ha promesso di usare il resto della sua presidenza per guidare l’America verso “un nuovo modo di fare affari in fatto di energia”. E non ha dimenticato – come era ovvio – di incalzare i repubblicani a reagire a questo disastro per “il futuro dell’America”, spronando Washington ad approvare il progetto di riforma che da mesi langue in parlamento. Per Obama non ci sono altre soluzioni: l’America deve cambiare. Il presidente ha promesso il ricorso a energie alternative, l’introduzione di limiti all’inquinamento da Co2 e di tasse per le società che eccedono questi limiti. E, a onor del vero, poco prima della disgrazia Obama si era detto favorevole all’aumento delle trivellazioni off-shore per far fronte al fabbisogno energetico nazionale, ricalcando così il suo predecessore George W. Bush. Ma nonostante ciò, non è riuscito a frenare le critiche. Secondo il Newsweek, investire di nuovo in R&D – ricerca e sviluppo – è ridicolo, oltre che inutile. L’America deve cominciare a diminuire le proprie emissioni immediatamente, se non vuole che Manhattan si ritrovi sotto l’acqua, scriveva qualche giorno fa il giornalista e blogger Ben Adler. E probabilmente ha ragione. Spendere altri fondi per la ricerca, ammesso che sia possibile da qui a dieci anni, è comunque insufficiente. Ci sono diverse tecnologie o soluzioni alternative come guidare auto di minore cilindrata, prendere l’autobus o vivere in case più piccole, che non hanno bisogno di essere studiate e sviluppate, ma soltanto di essere scelte. 

Ora non resta che vedere come reagiranno gli americani. Secondo gli ultimi sondaggi, a Washington il vento del malcontento e della paura spira sempre più forte. I vecchi slogan clintoniani, come “I feel your pain” (sento la vostra sofferenza), riesumati da Obama, fanno meno presa sull’elettorato. La classe media si sente tradita perché lasciata annaspare nella crisi economica, la maggior parte dei giovani è disoccupata e senza futuro, mentre i manager di Wall Street restano super pagati nonostante abbiano distrutto speranze e sicurezza di molti americani. E ovviamente il disastro ecologico della marea nera non fa che aumentare questo stato di frustrazione nazionale, come ha scritto Richard A. Epstein sul Wall Street Journal. Un’inchiesta di qualche tempo fa del Washington Post mostrava che soltanto un americano su tre voterebbe ancora come l’ultima volta. Una condanna inesorabile per l’Amministrazione Obama e un malcontento che accomuna tutti gli elettori d’Oltreoceano dai democratici ai repubblicani, agli indipendenti. Quale sarà la prossima mossa di Obama? Difficile da dirsi. La magia dei primi tempi è ormai perduta e anche i toni duri, quelli da “Chi devo prendere a calci nel sedere?”, sembrano non aver funzionato. Ma la decisione deve essere presa presto. Perché i candidati democratici (e Obama con loro) temono di andare al massacro nel voto di novembre.