Obama rischia di scivolare sul trampolino della “Green Bank”

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Obama rischia di scivolare sul trampolino della “Green Bank”

05 Novembre 2009

Gli ultimi indici di gradimento parlano chiaro: la popolarità di Barack Obama è in caduta libera. Non è bastata, quindi, la consegna del Nobel per ribaltare un trend che procede spedito ormai da alcuni mesi e che ha portato il presidente americano ad esser superato persino dall’ex rivale alle primarie, e ora vicepresidente, Hillary Clinton.

I motivi di questo crollo sono molteplici, ma di sicuro pesano i ritardi nelle riforme promesse da Obama durante la campagna elettorale: due su tutte, la riforma sanitaria e il cosiddetto “Progetto Apollo”. Ma se la prima deve vedersela soprattutto con gli enormi interessi delle lobby farmaceutiche e ospedaliere a stelle e strisce, la seconda potrebbe rappresentare il vero punto di svolta della presidenza Obama, consentendo agli Stati Uniti di diminuire drasticamente sia la disoccupazione post-crisi che la dipendenza dal petrolio mediorientale.

Non a caso molti studiosi hanno visto proprio nel “Progetto Apollo” un potenziale New Deal in chiave ambientalista. Ma, come dicevamo in precedenza, l’opera finora è tutt’altro che decollata, anche se, in verità, qualcosa sta cominciando a muoversi, come testimonia la proposta di creare una “Green Bank” che raccolga, da una parte, i fondi degli investitori privati e, dall’altra, i vari progetti degni di appoggio economico. In parole povere, un enorme centro di smistamento di soldi e idee tutte accomunate dalla volontà di liberare gli USA dalla dipendenza di gas e petrolio, dannosi sia per l’ambiente che per la bilancia commerciale statunitense, pericolosamente in pendenza verso le importazioni.

Ciò che rende quest’idea più che una semplice proposta è il fatto che sia stata avanzata da Jake Caldwell sulle pagine del sito del “Center for American Progress”, un pensatoio tanto vicino all’establishment democratico da esser definita dal Times come il gruppo attualmente più influente a Washington. Secondo Caldwell, la “Green Bank” sarebbe l’unico strumento davvero capace di rilanciare l’economia americana, e questo perché agirebbe su due fattori di vitale importanza: da una parte, renderebbe possibile la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre dall’altra permetterebbe all’intero fabbisogno americano di utilizzare energia “verde” a un prezzo sicuramente più vantaggioso rispetto a quella ricavata dal petrolio mediorientale, eliminando inoltre ogni influenza del mondo arabo sulla politica, economica e non, statunitense.

A render più interessante quest’idea sono le cifre che Caldwell presenta all’interno del suo articolo: lo studioso prevede che con un capitale iniziale di 7,5 miliardi di dollari, la Banca potrà provvedere alla creazione di 3-4 gigawatt annui di energia “pulita”, mentre se il capitale è di 50 miliardi (il massimo, sempre secondo Caldwell), i risultati diventano davvero sbalorditivi: quasi 23 milioni di autoveicoli utilizzerebbero energia alternativa alla comune benzina, con un risparmio di 642 milioni di barili di petrolio l’anno.

Niente male, anche se, in realtà, la vera forza della Green Bank sembra consistere nel fatto che essa si calerebbe alla perfezione nell’organizzazione economica americana, senza provocare particolari traumi al credo liberal-capitalista. L’istituzione, infatti, non farebbe altro che catalizzare, concentrare e organizzare gli sforzi privati, non a caso già incentivati negli anni scorsi dal Senato con importanti sgravi fiscali, insufficienti però a dare il via a fenomeni di produzione in larga scala di macchinari ad alta tecnologia e ancor più alti costi.

E qui viene la nota dolente: a legger bene l’intero documento, si nota come di ambiente, in realtà, si parli ben poco, e mai come vera e propria motivazione di fondo all’intero progetto “Green Bank”: ad essere protagonista, infatti, è sempre il fattore finanziario, tanto che di riduzione di CO2 (vale a dire l’argomento centrale del mai accettato protocollo di Kyoto) si parla solo nel paragrafo finale, come se fosse un elemento accessorio. Ma se i veri protagonisti, allora, sono l’aspetto finanziario e l’occupazione, un altro importante particolare sembra esser stato ignorato da Caldwell: in un’epoca di libero mercato e in un periodo di crisi in cui la parola protezionismo suona (giustamente) come un tabù, chi ci assicura che ad usufruire dei servizi della Green Bank saranno esclusivamente le aziende e i lavoratori a stelle strisce?

A differenza del New Deal di Roosevelt, stavolta non si costruirebbero autostrade e dighe ma oggetti tecnologici che nessuno impedisce di assemblare altrove (nella migliore delle ipotesi, nel vicino Messico; nella peggiore, in Cina e India) e poi trasportare e installare sul territorio americano. Insomma, se la “Green Bank” si propone come un vero e proprio trampolino di lancio per gli investimenti privati come per l’occupazione ed anche, perché no?, per il periclitante Obama, qualcuno dovrebbe avvertire il presidente e i suoi che, come per tutti i trampolini, bisogna stare attenti a non scivolare.