Obama sceglie l’Egitto per parlare agli arabi e all’Islam moderato

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Obama sceglie l’Egitto per parlare agli arabi e all’Islam moderato

20 Maggio 2009

Quando la Casa Bianca ha dovuto decidere dove il presidente Obama avrebbe pronunciato un discorso di alto profilo diretto al mondo musulmano, si è aperto un acceso dibattito tra i consiglieri del presidente. Alcuni premevano affinché il discorso si tenesse in Indonesia, il che ha un senso. L’Indonesia ospita la più vasta popolazione musulmana al mondo. Ha fatto argine all’estremismo islamico, e in quanto democrazia è anche una nazione che potrebbe essere indicata come modello da seguire da parte degli Stati Uniti.

Ma alla fine, l’amministrazione ha deciso che il discorso del 4 giugno, mirato al quinto della popolazione mondiale che è musulmano, sarà pronunciato in Egitto. Questa scelta parla chiaramente di quale sia la vera sfida di fronte a Obama. Il presidente non si troverà semplicemente a parlare ai musulmani di religione o di cultura. Inevitabilmente, parlerà del principale solco politico che divide l’attuale mondo islamico; un solco che parte proprio dall’Egitto, e di cui l’Egitto è un crocevia fondamentale.

E’ sempre più chiaro come questo solco sia tra i governi islamici relativamente moderati, che ambiscono a un riallineamento con gli Usa – l’Egitto, l’Arabia saudita, la Giordania, gli Emirati arabi uniti, e l’Autorità palestinese – e un’asse radicale guidato dall’Iran che include Siria, Hezbollah, Hamas, le varie schegge di al Qaeda e, sempre più col passare dei giorni, paesi quali il Qatar. In mezzo al guado vi sono nazioni come il Libano, atteso tra un mese a un’elezione cruciale che determinerà la sua traiettoria futura.

Lo scopo di ogni discorso al mondo islamico non può essere semplicemente quello di suscitare nei musulmani  sentimenti più amichevoli verso l’America, ma di convincere i leader e la gente musulmana che non c’è niente di incompatibile nell’essere musulmani e allineati con gli Stati Uniti. Più schiettamente, lo scopo è convincere il mondo musulmano che l’Iran non rappresenta il futuro. E l’Egitto è – o almeno dovrebbe essere – centrale in questo sforzo.

L’Egitto si trova al centro di tre grandi cerchi concentrici, di fondamentale importanza a livello politico: il mondo arabo, il mondo africano e il mondo islamico. E’ una posizione cruciale nella battaglia adesso in corso tra un Islam moderato e uno radicale. L’Egitto conosce entrambe le facce di questa battaglia.

E’ il luogo di nascita della Fratellanza musulmana, un’organizzazione da cui sono scaturiti molti degli attuali movimenti radicali islamici. Il Cairo è stata teatro di quello che rimane uno dei più sconvolgenti attacchi mai lanciati dagli estremisti islamici, l’assassinio nel 1981 del presidente Anwar Sadat a opera di radicali che si erano infiltrati nelle forze armate.

D’altra parte, l’Egitto ospita una delle più celebrate, e moderatrici, influenze nel mondo islamico, la storica università di Al-Azhar. I suoi studenti hanno deliberato su questioni legali e religiose concernenti i musulmani  sunniti per più di mille anni. Al-Azhar è stata indubbiamente una grande fonte di ragionevolezza, anche se i suoi critici tentano di screditarla asserendo che opera sotto il controllo dello stato.

Il fatto è che l’Egitto – la più grande nazione araba, sunnita, moderata e in larga parte pro-Occidente nelle sue prospettive – dovrebbe essere un contrappeso potente e democratico al più radicale Iran sciita. In realtà, a volte compie effettivamente una tale funzione ma altre volte no, e questa è da tempo causa di profonda frustrazione per i dirigenti politici statunitensi.

Gran parte di questa ambigua situazione è personificata dal presidente egiziano, Hosni Mubarak. Ha appena compiuto 81 anni, ed è il leder del paese sin dall’omicidio di Sadat. Da allora, è stato amico degli Stati Uniti, una voce di moderazione tanto in politica quanto nella religione, un difensore degli storici accordi di pace tra Egitto e Israele, un promotore della liberalizzazione economica. 

Però ha anche provocato confusione in tutti coloro che si aspettavano che proprio lui, Mubarak, avrebbe dimostrato come ci possa essere un trasferimento democratico dei poteri nella più grande nazione araba. E’ stato rieletto senza incontrare opposizione per quattro volte, e una quinta volta in una contesa elettorale macchiata dall’incarcerazione del
suo principale avversario. Molti egiziani pensano che stia preparando suo figlio a succedergli. Il curriculum egiziano sui diritti umani non è immacolato; spesso i dissidenti spariscono dalla circolazione.

Gran parte della repressione politica egiziana è eseguita nel nome del contenimento dell’estremismo islamico, il che riporta d’attualità la classica domanda: questa strategia è efficace o piuttosto non alimenta la rabbia che cova sotto la superficie? Gli egiziani ritengono che i 27 anni di governo Mubarak mostrano come il loro approccio sia quello corretto.In ogni caso, i numeri dell’Egitto in politica, economia e diritti umani, per quanto discutibili, brillano se paragonati ai sistemi adottati dai fondamentalisti islamici. Un altro argomento che Obama potrà spendere il mese prossimo: l’Egitto ha un governo e un popolo che da tempo ambiscono a relazioni amichevoli con gli Usa.

La guerra in Iraq ha logorato questi sentimenti; in una esauriente serie di ricerche compiute nel mondo islamico, l’istituto di statistica Gallup ha rilevato recentemente che solo un insignificante 6 per cento di egiziani dichiara di approvare l’operato della leadership Usa. Ma Gallup ha anche constatato che una ritirata americana dall’Iraq sarebbe il singolo atto che maggiormente aumenterebbe quella percentuale. Obama, naturalmente, ha avviato il meccanismo che porterà a quella ritirata.

Quindi, c’è spazio per un significativo miglioramento dei sentimenti egiziani verso gli Usa, così come del ruolo dell’Egitto quale contrappeso all’Islam radicale. Un discorso, naturalmente, non raggiungerà entrambi gli obiettivi, ma è un buon inizio.

The Wall Street Journal

Traduzione Enrico De Simone