Obama si prepara. La fine della guerra e il negoziato con i Talebani

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Obama si prepara. La fine della guerra e il negoziato con i Talebani

29 Settembre 2010

Per chi ha creduto sinceramente agli ideali sulla "esportazione della democrazia", e ancora ci spera, apprendere che al tavolo dell’Alto Consiglio per la pace istituito dal Presidente Karzai ci sarà posto per Pir Mohammad Rohani è stata una fitta al cuore. Rohani infatti era l’ex rettore dell’università di Kabul ai tempi dell’Emirato Talebano. Perché Obama e il Generale Petraeus lo hanno permesso? In realtà gli ideali sono sempre stati una merce pericolosa: sotto questa si combattono guerre e si cerca di cambiare il mondo ma quando diventano ideologia essi tendono a imprigionare anche ciò che contenevano di buono, facendo perdere di vista la giustizia e la ragione in un illusorio e nostalgico attaccamento a posizioni divenute ormai convenzionali. Ecco perché, dopotutto, dovremmo accettare che Rohani sieda a quel tavolo.

Dopo l’11 Settembre l’amministrazione Bush aveva un obiettivo preciso: rovesciare il regime islamico che aveva dato ospitalità all’internazionale jihadista di Bin Laden. Quel risultato è stato parzialmente raggiunto. L’Afghanistan non è più il santuario di Al Qaeda. Se restiamo alla cronaca di questi ultimi giorni, l’uso sempre più massiccio dei droni ha portato all’eliminazione di Shaikh Fateh, il capo delle operazioni di Al Qaeda fra Pakistan e Afghanistan, incenerito da un missile (la stessa sorte è toccata al suo predecessore Mustafa Abu Al-Yazid ucciso nel 2008). Ma quello contro Al Qaeda non è un singolo conflitto delimitato nel tempo, è al contrario una “guerra infinita” che si ripete ogni volta che i terroristi si spostano trovando nuovi acquartieramenti. Il fallito attentato del giorno di Natale a New York e molti altri attacchi sventati negli ultimi due anni non sono stati progettati a Kandahar ma nello Yemen, in Nord Africa o in Somalia. L’Afghanistan è stata solo una puntata della caccia globale e perpetua ai "masters of terror".

Per sconfiggere definitivamente sul campo i Talebani, a detta di Petraeus servirebbero altri dieci anni. L’America, tanto più quella di Obama alle prese con nuove paure come la recessione economica, non può permettersi uno sforzo bellico di queste dimensioni, almeno non da sola (i Paesi europei, Germania in testa, hanno promesso decine di milioni di dollari per “favorire” i negoziati col nemico). E’ giunto quindi il momento che Obama ponga la questione della “exit strategy” com’è accaduto per l’Iraq. Non ritirarsi in maniera confusa lasciando l’impressione di aver tradito l’impegno della missione intrapresa dieci anni fa dal suo predecessore: abbandonare Karzai significherebbe danneggiare terribilmente l’immagine dell’America e rafforzare la propaganda degli imperialisti islamici sul grande Califfato. Nello stesso tempo però Obama non può ragionare solo in un’ottica militare (vincere), perché il suo mestiere non è fare il generale. Ha il compito di cogliere le opportunità e prevenire le minacce per il suo Paese dovunque esse giungano, non solo da Kabul.

Se i Talebani, quelli che parlano di pace (e piovono le smentite), accetteranno di deporre le armi e rispetteranno la nuova Costituzione democratica, in cambio potrebbero reclamare un seggio in parlamento e forse c’è ancora qualcuno disposto a votarli visto quel che accade ad altre latitudini (nell’Hamastan). Sono i limiti del processo di “nation building”, il fatto che nella nuova compagine democratica ci sarà sempre posto per i personaggi del vecchio regime, com’è accaduto anche in Italia dopo il Fascismo. Questo perché l’esportazione della democrazia è un’opportunità per i popoli liberati dalle tirannie ma non deve trasformarsi in un’imposizione dai risvolti coloniali: gli Stati Uniti hanno rovesciato il santuario di Al Qaeda in Afghanistan anche se non è detto che riusciranno a creare una democrazia o un governo incorruttibile. Sicuramente non senza l’aiuto degli afghani che ci credono. Ma in fondo fondo non è proprio Karzai ad essere dipinto come il re dei corrotti? Siamo sicuri che a Kabul e dintorni hanno un’idea della corruzione politica e sociale come l’abbiamo noi in Occidente?

La soluzione secondo Friedman è una “pakistanizzazione” del conflitto, che “non vuol dire estendere la guerra in Pakistan ma piuttosto spingere Islamabad in Afghanistan”. Gli abboccamenti pakistani con i Taliban potrebbero paradossalmente rivelarsi utili nel momento in cui l’Alto Consiglio darà il via al processo di pace. Al Pakistan, colpito dalle ultime sciagure naturali, profondamente scosso in quella che era la sua crescita economica, e sempre in bilico dal punto di vista politico e degli assetti democratici, tornerà utile una soluzione della guerra e la messa in sicurezza delle sue frontiere. L’Afghanistan a sua volta potrebbe essere un grande “hub” asiatico invece di continuare a ritenerlo una barriera alle autostrade della globalizzazione: America, Cina, India, Iran, Russia, e lo stesso Pakistan, hanno tutto l’interesse ad aprire nuove rotte commerciali e dell’energia. Nuove strade ed altre opportunità economiche. Stabilità. Pace.

Per i neoconservatori – gli idealisti al potere quando Bush dichiarò guerra all’Afghanistan – la guerra è stata inevitabile per diversi motivi, non ultimi e rilevanti la mancanza di libertà o la sottomissione delle donne. Dovremmo aggiungere che è stata anche molto costosa perché in fin dei conti ha impedito agli Usa di ottenere la supremazia in Asia Centrale. Adesso, esattamente come dieci anni fa, a Washington servono ancora un Pakistan stabile e i soldi della Cina, e probabilmente sul medio e lungo periodo sarà Pechino a godere del ritiro americano da Kabul. Ma al di là delle questioni di geopolitica, tornando al tavolo del Consiglio di pace, oltre all’ex rettore talebano fra i 70 membri nominati da Karzai appaiano anche i nomi di 8 donne. In un Paese dove nelle campagne e nelle aree più arretrate le donne si usa ancora frustarle (sotto i Talebani venivano fucilate negli stadi con un sommario colpo alla nuca), possiamo dire di aver raggiunto un discreto risultato. Rohani non sarà l’ideale, ma dovrà scendere a patti con il suo peggior nemico.