Obama voleva far sognare Haiti ma nell’isola è arrivato il colera

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Obama voleva far sognare Haiti ma nell’isola è arrivato il colera

26 Novembre 2010

Dan Kennedy scrive sul Guardian, il bastione del giornalismo di sinistra britannico. Nei giorni del terremoto di Haiti, lo scorso Gennaio 2010, appariva un suo articolo dal titolo: Obama’s Haiti is not Bush’s Katrina – “Haiti non è per Obama ciò che fu Katrina per Bush”, nel quale tra l’altro affermava che, non essendo Haiti parte del territorio statunitense, eventuali parallelismi tra le due catastrofi non sarebbero stati ammissibili. Perché i neri sono neri anche ad Haiti, ma non hanno passaporto statunitense. Argomento forte!

Effettivamente sarebbe troppo affermare che gli odierni guai nell’isola caraibica – morti per colera, malnutrizione, mancanza di servizi igienici emersi sullo sfondo ultra-decennale di corruzione politica, banditismo armato e violenza generalizzata – siano figli dell’inefficienze dell’amministrazione Obama o della mancanze degli Stati Uniti in generale. Sostenere un argomento del genere sarebbe sciocco.

Allo stesso tempo, però, è difficile dimenticare l’enfasi empatica (e con il senno di poi anche stucchevole) usata dal Presidente statunitense a due giorni dal terremoto, il 14 Gennaio scorso, quando circondato dai maggiorenti del suo governo – Joe Biden, Hillary Clinton, Janet Napolitano, Robert Gates – dichiarava: ”Ho chiamato la mia amministrazione al lancio di un celere, aggressivo e coordinato sforzo per salvare vite e alleviare le sofferenze ad Haiti", concludendo il suo discorso, con un messaggio rivolto direttamente agli haitiani: “Non sarete abbandonati! Non sarete dimenticati!”.

Il terremoto di Haiti dello scorso 12 Gennaio ha fatto 2.3 milioni di sfollati, danneggiato le già degradate infrastrutture della paese caraibico e messo fuori uso quasi tutte le infrastrutture idriche. Il colera (sviluppatosi proprio nel quadro di queste criticità) si sta ‘impadronendo’ dell’isola. Il primo caso è stato annunciato il 19 Ottobre scorso. Tredici giorni fa, il 12 Novembre, le cronache mortifere da Port-au-Prince ci riportavano la tragica oscenità di un quadro con almeno diciottomila casi di colera individuati e un numero di vittime accertate ben oltre le 1100 unità (ricordiamo che il colera causa forte diarrea, conducendo generalmente alla morte per disidratazione).

Oggi il dato è in rapido peggioramento: oltre ventinove mila casi di colera accertati, con un numero di morti salito a 1600. Un aumento del 74% del tasso di morte in meno di due settimane e del 206% di quello di contagio. Aumenti dovuti non solo alle deficienze idriche e alla sotto stima del problema da parte di USA e ONU in testa, ma aggravato anche da una generalizzata mancanza di difese immunitarie tra gli abitanti, visto che nell’isola il colera non si vedeva da almeno cinquant’anni, se non di più.

Di fronte ad una catastrofe di questa entità, la risposta statunitense è adeguata? La risposta sembrerebbe negativa. La USAID di Rajiv Shah (primo indiano-americano al più alto ufficio governativo nella storia statunitense, voluto fortemente da Barack Obama e Hillary Clinton), sembra del tutto incapace ad apportare significativi piani di intervento. Non sono rassicuranti infatti le parole di Mark Ward, capo dell’Office of Foreign Disaster Assistance (OFDA), una delle branche dello USAID. Ward ha recentemente presentato il piano statunitense per far fronte alla crisi colerica. A far dubitare è soprattutto l’esiguo ammontare di fondi che l’agenzia ha destinato all’emergenza medica dell’isola: solo 9 milioni di dollari. “Li vedrete crescere di giorno in giorno,” ha rassicurato Ward.

Il problema però non è solo il colera. A più di dieci mesi dal terremoto, centinaia di migliaia di persone ancora vivono nelle tende. Bisogna ricordare inoltre che tra il 12 Gennaio scorso, giorno del terremoto, e il via libera da parte del Congresso USA al piano di stanziamento dei fondi per gli aiuti ad Haiti, sono passati più di sette mesi. Con buona pace di un Congresso allora ancora saldamente in mano ai democratici i quali, per bocca di Hillary Clinton, non hanno trovato di meglio che prendersela con il Sen. Tom Coburn, Repubblicano dell’Oklahoma, per aver sollevato qualche obiezione su come il denaro stanziato sarebbe stato impiegato.

Nel complesso, comunque, anche in considerazione del ruolo che gli USA, da Monroe in poi,  hanno voluto e continuano a voler giocare nel ‘cortile di casa’ caraibico, chi risulta sconfitta è ancora la magniloquenza del Presidente Obama e la sua proverbiale capacità di suscitare “grandi aspettative”. Questa volta, oltre la beffa, anche la tragedia.