Obama vuole aprire alla Siria ma la via di Damasco è piena di insidie

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Obama vuole aprire alla Siria ma la via di Damasco è piena di insidie

15 Novembre 2008

Non è mai corso buon sangue tra George W. Bush e il presidente siriano Bashar al-Assad. Secondo l’amministrazione statunitense, dall’11 settembre 2001 la Siria avrebbe fornito sostegno materiale e ideologico al terrorismo islamico: una convinzione certificata dal Congresso americano con il Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act. Il documento – trasformato in legge il 12 dicembre 2003 – condanna duramente la fornitura di armi ai gruppi terroristici da parte della Siria, l’importazione illegale di petrolio iracheno e la permanenza militare di Damasco in Libano. Al Syrian Accountability Act – tassello fondamentale nella lotta al terrore di George W. Bush – è seguita la rottura dei rapporti diplomatici tra Washington e Damasco: il dialogo con Assad non è più ripreso e le tensioni, se possibile, si sono acuite.

Con l’elezione di Barack Obama, però, qualcosa potrebbe cambiare: così, almeno, sembra pensarla Sami Moubayed. Docente di relazioni internazionali all’università di al-Kalamoun e direttore della rivista siriana "Forward", Moubayed è analista politico vicino al presidente Assad, per il quale ricoprirebbe anche il ruolo di speech writer. Particolare attenzione merita allora l’articolo "L’invito di Abu Hussein a Damasco", che Moubayed ha scritto per "Asia Times" il 7 novembre: a tre giorni dall’elezione del 44° presidente americano, l’analista siriano detta a Washington dieci condizioni perché i rapporti tra Siria e Stati Uniti tornino alla normalità. E perché Abu Hussein – così Barack Obama viene chiamato nel mondo arabo – possa stringere la mano ad Assad nel palazzo presidenziale di Damasco.

Nella prima parte dell’articolo, Moubayed sottolinea come i siriani non vedano nel presidente eletto "un salvatore degli arabi": sperano, però, che Obama possa essere "più corretto e imparziale quando tratterà del conflitto arabo-israeliano" e che "metta fine alla tensione nata tra Damasco e Washington sotto l’amministrazione Bush". A questo proposito, continua l’analista, già in agosto "tre siriani sono andati a Washington e si sono incontrati con think-tank, giornali e sostenitori di Obama per discutere su come riallacciare le relazioni bilaterali dopo che Bush avrà lasciato la Casa Bianca". Allo stesso tempo, negli ultimi dodici mesi, "Damasco ha dato il benvenuto a un vasto schieramento di funzionari statunitensi, membri del team di Obama o sostenitori del nuovo presidente". Da queste premesse, secondo Moubayed, dovrebbe nascere una nuova collaborazione tra Siria e Stati Uniti "su svariati temi, e innanzitutto sull’Iraq".

Come riallacciare le reazioni tra Washington e Damasco? Come far sì che "la Siria faccia valere il suo peso nella regione per moderare elementi parastatali come Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina"? In proposito, Moubayed ha le idee molto chiare: nella parte conclusiva dell’articolo illustra infatti le dieci condizioni perché Assad possa collaborare con Obama. Alcune di queste sono di carattere astratto: fine della retorica anti-siriana da parte della Casa Bianca e dei media statunitensi, riconoscimento della cooperazione siriana ai confini iracheni, riconoscimento del ruolo centrale svolto dalla Siria nella risoluzione dei problemi mediorientali, scuse e spiegazioni ufficiali per "il raid aereo sulla Siria" che lo scorso ottobre "ha provocato la morte di otto civili siriani". Quattro di queste condizioni sono di carattere astratto, ma non di poco conto: accettare queste condizioni significherebbe andare contro i principi che hanno guidato la politica estera degli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni. Principi – come la condanna di Damasco in quanto sponsor del terrorismo – che hanno accomunato democratici e repubblicani.

Ma la posta in gioco cresce ulteriormente quando si passa alle altre sei richieste, più concrete: "nomina di un nuovo ambasciatore americano in Siria" dopo il ritiro di Margaret Scooby del 2005; "cooperazione per fronteggiare l’arrivo di un milione e mezzo di profughi iracheni in Siria"; fine delle sanzioni imposte a Damasco e abolizione del Syrian Accountability Act; sponsorizzazione dei trattati di pace indiretti tra Siria e Israele – attualmente gestiti dalla Turchia – per giungere a "negoziati diretti"; aiuto nella lotta contro il fondamentalismo islamico; "normalizzare i rapporti tra Siria e Stati Uniti a livello delle singole persone", in altre parole "concessione del visto ai siriani che vorranno studiare o lavorare negli Stati Uniti".

È chiaro nessun presidente degli Stati Uniti accoglierebbe in toto simili richieste, e Obama non sarà da meno. Senza contare che alcune delle condizioni poste da Moubayed non riguardano i soli Stati Uniti: sui colloqui di pace tra siriani e israeliani – voluti dal premier uscente Olmert, ma osteggiati tanto dal Likud quanto dalla leader di Kadima Tzipi Livni –, ad esempio, molto dipenderà dalla coalizione di governo che uscirà dalle elezioni israeliane di febbraio. Quello che resta da capire, tuttavia, è se l’avvento di Obama cambierà davvero i rapporti tra Washington e Damasco: Stati Uniti e Siria torneranno a parlarsi? E in quali termini? Assad stringerà la mano di Obama o resterà deluso come Ahmadinejad, che speranzoso in un’apertura sul nucleare da parte del nuovo presidente, si è sentito rispondere che un Iran atomico non è tollerabile. Riuscirà Assad, al contrario del presidente iraniano, a trattare con Obama sulle questioni che gli stanno a cuore?

Per fare un po’ di chiarezza non resta che appoggiarsi a parole e programmi di Barack Obama. Il 10 febbraio 2007, annunciando la sua candidatura come front runner del partito democratico a Springfield (Illinois), Obama ha lanciato il suo impegno contro il terrorismo: "Possiamo lavorare tutti insieme per scovare i terroristi con un esercito più forte, possiamo stringere la rete intorno ai loro finanziatori, e possiamo migliorare le nostre capacità di intelligence". Come Obama voglia giungere a questo risultato è noto: ritiro graduale dall’Iraq, spostamento delle truppe sul fronte afgano, dialogo con i nemici degli Stati Uniti. Un dialogo che il neopresidente sostiene da tempi non sospetti. Già il 20 novembre 2006 infatti, di fronte alla platea del Chicago Council of Global Affairs, Obama ha legato lo soluzione dei conflitti mediorientali "all’apertura di un dialogo con la Siria e l’Iran": per quanto concerne la soluzione al conflitto iracheno, secondo il senatore dell’Illinois "occorrerebbe organizzare una conferenza regionale con iracheni, sauditi, iraniani, siriani, turchi, giordani, inglesi e con altri ancora".

La centralità dell’iniziativa diplomatica non ha abbandonato Obama. In un articolo scritto nel giugno 2007 per la rivista "Foreign Affairs" ("Per una politica estera degli Stati Uniti"), il senatore ha ribadito l’impegno a "orientare l’iniziativa americana verso un rafforzamento della nostra diplomazia": "Una diplomazia  determinata, sostenuta dall’intera gamma degli strumenti della potenza americana – politici, economici e militari – potrebbe avere successo anche di fronte ad avversari di vecchia data come l’Iran e la Siria". Tentare la via del dialogo, dunque, ma da una posizione di forza che non esclude sanzioni e uso dell’esercito: se questa è la linea del tandem Obama-Biden – come sembra confermare il programma elettorale nel capitolo "Sicurezza Nazionale" – riallacciare i rapporti con la Siria non sarà certo una passeggiata.

Ma sul fronte della (futura) politica estera americana, molto dipenderà anche dallo staff dei consiglieri presidenziali. A questo proposito, la rivista liberal "The New Republic" ha pubblicato la lista delle persone più influenti per il presidente eletto: tra loro figurano il capo dello staff Rahm Emanuel – figlio di un sionista e sostenitore delle ragioni israeliane – e il vicepresidente Joe Biden – "le cui posizioni in politica estera sono più intransigenti di quelle di Obama". A sorpresa, nella lista, anche Nicolas Sarkozy: secondo la rivista, Sarkozy sarà per Obama quello che Blair è stato per Bush. Anche lui, dall’Europa, contribuirà a stabilire i confini del dialogo. E una cosa è certa: per dirla con Christopher Hitchens, non "basterà il fascino e la prestanza del nuovo presidente a spianare le realtà spiacevoli e ad ammansire tutte le forze ostili". E questo Obama lo sa meglio di chiunque altro.