Obama vuole ascoltare le ragioni di tutti ma non quelle di Israele
08 Giugno 2009
Obama insiste sul fatto che la politica estera degli Stati Uniti verrà portata avanti con modestia e umiltà. Soprattutto, l’America non si metterà più a “dettare” ad altre nazioni. Dobbiamo, ha detto Obama al G-20, “forgiare collaborazioni, invece di limitarci a dettare soluzioni”. Ha poi dichiarato ad al-Arabiya che l’America d’ora in poi “inizierà ad ascoltare, perché troppo spesso l’America inizia dettando”. Un’intenzione lodevole. Si applica a chiunque: Iran, Russia, Cuba, Siria, anche il Venezuela. Eccetto Israele. A Israele si ordina di bloccare gli insediamenti. Per usare le imperiose parole del segretario di Stato Hillary Clinton: “Stop agli insediamenti. Niente avamposti, niente nuovi villaggi, nessun naturale ampliamento di quelli esistenti. Nessuna eccezione”.
Ma cosa implicano, precisamente, quelle parole? Nessun “naturale ampliamento” significa strangolare a morte le città nate a ridosso della linea d’armistizio stabilita nel 1949, molte delle quali sobborghi di Gerusalemme, che in ogni negoziato dell’ultimo decennio sono sempre state considerate un punto su cui Israele non avrebbe ceduto. Significa nessuna crescita della popolazione, cioè nessun bambino. O magari, se si hanno bambini, nessuna nuova casa per loro, neanche entro i limiti preesistenti della città. Il che significa che, per ogni bambino nato, qualcuno deve andarsene.
Nessuna comunità può sopravvivere così. L’obiettivo, ovviamente, è di minare alla base e distruggere queste città, ancor prima dell’inizio dei negoziati. A che scopo? Nell’ultimo decennio, il governo degli Stati Uniti ha assunto che qualsiasi trattato di pace finale tra israeliani e palestinesi avrebbe dovuto prevedere che Israele mantenesse alcuni degli insediamenti più interni, compensando ciò con una porzione di territorio israeliano che passerebbe sotto controllo palestinese. Una soluzione del genere venne prospettata dal Piano Clinton durante i negoziati di Camp David nel 2000, e poi a Taba nel 2001. Dopotutto, perché cacciare la gente dalle proprie case e poi ridurle in macerie quando, invece, arabi ed ebrei possono continuare a vivere dove si trovano se soltanto la linea d’armistizio del 1949 venisse spostata appena un po’ dalla parte palestinese, in modo da includere i principali e più interni insediamenti israeliani, e poi spostata dentro Israele per catturare territorio israeliano da dare ai palestinesi?
Un’idea del genere non solo è logica, non solo è stata accettata dalle amministrazioni democratiche e repubblicane dell’ultimo decennio, ma è stata anche condivisa in documenti scritti, ovvero sulle lettere di intesa scambiate tra Israele e Stati Uniti nel 2004, e poi appoggiata da una schiacciante maggioranza in una risoluzione del Congresso. Eppure, l’attuale dipartimento di Stato si è ripetutamente rifiutato di avallare quell’accordo, o anche solo di dire che vi è favorevole. E questo, da un presidente che insiste con fervore sul fatto che tutte le parti in conflitto devono onorare i patti già assunti. E che adesso si aspetta che Israele accetti di fare concrete e irreversibili concessioni in cambio di nuove promesse da parte americana, quando Obama stesso ha cinicamente annullato gli impegni assunti precedentemente dal suo paese.
L’intera questione del “naturale ampliamento” è un guazzabuglio. Si può arrivare a fermare il processo di pace perché un’insegnante del quartiere ebreo di Gerusalemme aggiunge una stanza alla sua casa per sistemare un nipote? E’ una cosa perversa fare di questo argomento il nocciolo del processo di pace nel momento in cui Gaza è governata dai terroristi di Hamas, votati alla guerra eterna contro Israele, e quando Mahmoud Abbas, dopo aver respinto tutte le offerte di pace avanzate da Ehud Olmert, ha la faccia tosta di dire che è in attesa (di cosa, che Hamas diventi moderato o che Israele si arrenda?) prima di avanzare qualsiasi iniziativa per la pace.
Nel suo acclamato discorso al mondo islamico, Obama ha detto che la situazione del popolo palestinese è “intollerabile”. E infatti lo è. E’ il risultato di sessant’anni di una leadership che ha dato alla gente palestinese corruzione, tirannia, intolleranza religiosa e una militarizzazione forzata; una leadership che per tre generazioni ha rigettato ogni offerta di indipendenza e dignità, scegliendo disperazione e povertà piuttosto che un qualsiasi accordo che non includesse la distruzione di Israele. E’ per questo che nel 1947 Haj Amin al-Husseini scelse la guerra, invece di una soluzione “a due stati”. E’ per questo che nel 2000 Yasser Arafat rifiutò uno stato palestinese. Ed è per questo che lo scorso dicembre Abbas ha rifiutato una proposta ancora più generosa da Olmert. Nei 16 anni da quando gli accordi di Oslo restituirono la West Bank ai palestinesi, i loro capi non hanno costruito strade, né tribunali, né ospedali, nessuna delle istituzioni basilari che uno stato dispone per alleviare le fatiche della propria gente. Invece hanno investito tutto in un’infrastruttura di guerra e terrore, mentre depositavano miliardi (elargiti da ingenui donatori occidentali) nei loro conti in Svizzera.
Obama afferma di essere andato al Cairo per dire la verità. Non abbiamo sentito una sola parola di verità, e in mezzo a tutte le banalità e i sentimentalismi del suo discorso l’unica cosa concreta che ha detto riguardava la nuova politica dell’America: “Gli Stati Uniti non accettano la legittimità di nuovi insediamenti israeliani”, una frase che rinforza il mito secondo cui la miseria dei palestinesi e la mancanza di un loro stato siano colpa di Israele e dei suoi insediamenti.
Biasimare Israele e dare battaglia sul “naturale ampliamento” può essere un modo di ingraziarsi i musulmani. Ma alla fine non farà altro che indurre gli stati arabi a fare come Abbas: sedersi e aspettare che l’America gli serva Israele su un vassoio d’argento. Il che rende la politica di Obama non solo disonorevole, ma perdente.
Tratto da Washington Post
Traduzione di Enrico De Simone