Obama vuole coinvolgere l’Iran nella soluzione della guerra afghana
18 Novembre 2008
‘Surge’ militare, coinvolgimento dell’Iran, sostegno al dialogo tra il governo di Hamid Karzai e l’ala ‘moderata’ dei Talebani. Secondo il Washington Post – che cita fonti dell’entourage di Obama – sarebbero questi i capisaldi della strategia regionale che il presidente in pectore degli Stati Uniti probabilmente seguirà per cambiare il corso del conflitto in Afghanistan. Un mix di diplomazia e di "hard power" ben visto sia al Pentagono sia al Dipartimento di Stato ma dalla chimica complessa che dovrà misurarsi cone le tante variabili indipendenti dell’intricato puzzle afghano.
Associando l’Iran agli sforzi americani nella terra dei mujaheddin, Obama compirebbe una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto alla condotta strategica osservata da G.W. Bush nella guerra al terrorismo internazionale. Per l’attuale inquilino della Casa Bianca, Teheran rimane uno dei Paesi sponsor del terrore e, dunque, un interlocutore inaffidabile nonostante i suoi considerevoli interessi politici, economici e religiosi in Afghanistan.
In effetti negli ultimi sette anni l’Iran ha giocato un ruolo ambiguo nella crisi afghana, alternando iniziative di cooperazione (indiretta) ad azioni di sabotaggio. Teheran ha infatti investito molti capitali per potenziare le infrastrutture lungo il confine comune con l’Afghanistan ma, allo stesso tempo, ha foraggiato le milizie sciite afghane (quelle delle tribù Hazara e di Ismail Khan, il potente “signore della guerra” di Herat) e finanziato una rete di madrase (scuole coraniche) fondamentaliste nell’Afghanistan occidentale.
In molti a Washington – tra generali e feluche – sono convinti che Stati Uniti e Iran possano trovare un punto d’incontro in Afghanistan: senza l’apporto diretto di un vicino ingombrante come quello iraniano sarà difficile migliorare la situazione nel Paese. E’ opinione diffusa, ad esempio, che il “surge” in Iraq non avrebbe raggiunto certi risultati se gli ayatollah iraniani avessero continuato ad armare le milizie sciite irachene. Il dialogo in Afghanistan tra americani e iraniani aprirebbe inoltre degli scenari regionali oggi impensabili, come la conclusione di un accordo di vasto respiro sulla sicurezza nel Golfo Persico, con l’attivo coinvolgimento dei Paesi appartenenti al Consiglio di cooperazione del Golfo.
In Afghanistan c’è veramente spazio per una proficua partnership tra Washington e Teheran. Entrambe i Paesi hanno interesse che a Kabul non si installi un governo guidato dagli estremisti sunniti e che si arresti il traffico della droga (l’Afghanistan è il primo produttore mondiale di oppio). Dal punto di vista iraniano, poi, l’insediamento di un governo stabile a Kabul significa scongiurare il rischio di vedere nuovamente colonne di profughi afghani che attraversano il confine occidentale (negli ultimi 20 anni sono stati circa due milioni). In una prospettiva strategica, inoltre, la pacificazione dell’Afghanistan sarebbe una vera manna per Ali Khamenei e soci, visto che a questa seguirebbe un probabile disimpegno militare americano nella regione.
Per portare avanti un progetto di cooperazione con l’Iran in Afghanistan Obama dovrebbe verosimilmente trovare una soluzione di compromesso per risolvere – o al limite congelare – la disputa sul programma nucleare iraniano: uno scenario difficile da immaginare, alla luce anche dell’intransigenza mostrata dal neopresidente americano di fronte alla prospettiva di veder sorgere un Iran atomico. La situazione si è nuovamente surriscaldata negli ultimi giorni. Teheran ha effettuato una serie di test balistici (lanciando missili terra-terra con una gittata tale da colpire Israele) che ha provocato l’inevitabile condanna di Washington.
I teorici dell’intesa lungo l’asse Washington-Teheran dimenticano poi di fare i conti con il contesto interno afghano. Sconfiggere i talebani, al-Qaeda o signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar non significa automaticamente escludere che un giorno a Kabul si instauri un governo di impronta fondamentalista.
Attualmente, con 40 deputati, la forza più organizzata nell’Assemblea nazionale afghana è “Hezb-e-Islami Afghanistan” (Hia), un partito di ispirazione islamica fondato da ex mujahidden appartenenti all’organizzazione radicale di Hekmatyar (la più importante prima dell’avvento dei talebani), che hanno ripudiato la lotta armata per concorrere nell’agone politico. Hia ha aperto uffici in tutto il Paese e probabilmente sarà l’ago della bilancia nelle elezioni presidenziali del prossimo anno.
L’ipotetica strategia afghana del neopresidente americano, infine, omette un aspetto importante, quello dell’inconciliabilità tra il coinvolgimento iraniano in Afghanistan e la parallela iniziativa di pace saudita. Gli americani hanno accettato di buon grado l’impegno di Ryadh a mediare tra il governo di Kabul (e Islamabad) e le frange della guerriglia islamista disposte ad abbandonare la violenza e a riconoscere
Un elemento che inquieta allo stesso tempo americani e iraniani è l’approccio tollerante dei sauditi verso le milizie islamiste. L’Arabia Saudita osteggia al-Qaeda al pari degli Stati Uniti ma non esclude la possibilità di giungere a un accordo – direttamente o tramite intermediari – anche con esponenti legati alla rete terroristica di Osama bin Laden. Un metodo che ha concorso negli ultimi tre anni a debellare la minaccia qaedista entro i confini della monarchia saudita. Il pericolo per gli Usa è che gli al-Saud giochino – magari con l’aiuto dello “Stato profondo” pakistano – una partita personale in chiave anti-iraniana, favorendo la scalata al potere in Afghanistan di forze politiche islamiste come Hia: al contrario di Washington e Teheran, a Ryadh non dispiacerebbe vedere i fondamentalisti sunniti al potere a Kabul…