Obama vuole il disarmo atomico grazie a un arsenale più intelligente

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Obama vuole il disarmo atomico grazie a un arsenale più intelligente

23 Aprile 2009

La mattina di domenica 5 aprile, nella suggestiva cornice creata dalla solenne architettura di  Hradcany, durante l’ormai abituale bagno di folla plaudente, il presidente Obama ha dichiarato: “Dobbiamo arrivare ad un mondo senza armi nucleari”.  Il 44° presidente americano suggeriva, quindi, che fosse la comunità internazionale, sia tramite le sue istituzioni, sia mediante l’autorità dei singoli paesi a creare le condizioni per mettere al bando tanto le armi medesime, quanto il commercio di materiale fissile.

Come noto, da poche ore Kim Jong Il aveva dato ordine di lanciare – adducendo la necessità di mettere in orbita un satellite di telecomunicazioni – due missili Unha-2, che gli esperti non ritengono essere altro che delle nuove versioni dell’Icbm Taepodong-2, con capacità di trasporto di testate nucleari. Obama ha accompagnato la proposta di mettere al bando le armi nucleari dalla richiesta di assunzione di responsabilità delle Nazioni Unite. Non è un caso che nel cuore della notte avesse fatto pressioni sia sul Segretario di Stato, sia su Susan Rice, ambasciatore statunitense presso il Palazzo di vetro, affinché il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvasse una risoluzione di condanna.

La dichiarazione di Obama è stata di quelle che sono destinate a lasciare un segno. Mai un presidente americano – parlando ex cathedra – aveva proposto una soluzione così drastica nel campo della security. Altri presidenti avevano dichiarato la propria speranza di vedere ridotta la minaccia nucleare. Sia Eisenhower nel 1953, nel suo intervento alle Nazioni Unite dal titolo “Atom for Peace”, sia Kennedy che  affermò che il mondo non doveva diventare la “prigione dentro la quale l’umanità aspetta la propria esecuzione”, sia Reagan che, spingendosi più in avanti di tutti – definì le armi nucleari “totalmente irrazionali, totalmente inumane, utili solo ad uccidere e potenzialmente distruttive di ogni forma di vita e di ogni civiltà sulla terra” avevano preso posizione, ma non nei termini essenziali, ma definitivi di Obama.

Dopo quel discorso, apparentemente, gli stessi paradigmi sui quali si è basata per sessant’anni la politica estera e militare di Washington sono stati minati alla fondamenta.

Ma è proprio così? La domanda è d’obbligo per l’osservatore più attento che rifiuta le sirene della retorica politica. E’ possibile che un politico astuto come Obama che – come altri “profeti laici” prima di lui è realista e, forse, anche cinico – possa, per il solo gusto del facile applauso,  compromettere l’impianto della sicurezza strategica americana, adottando un linguaggio da vecchio “figlio dei fiori”?

Se da tempo gli scienziati ritengono l’arma nucleare tecnologicamente obsoleta, il mondo della politica e della programmazione strategica ha dovuto fare i conti con gli evidenti successi di quest’arma. Nonostante ciò già il 4 gennaio 2007 – quando Barack Obama era solo un oscuro senatore dell’Illinois – il severo ed accreditato “Wall Street Journal” usciva con uno articolo intitolato “A World free of Nuclear Weapons”. A firmare il pezzo non erano dei vecchi liberal, nostalgici dei bei tempi di Berkley, ma un quartetto di personaggi che sicuramente non sono dei pacifisti “storici” e due di questi repubblicani di ferro: George P. Shultz, William J. Perry, Henry A. Kissinger e Sam Nunn.

Cosa ha spinto questi autori e persino Kissinger, che conquistò fama e credibilità accademica nel 1957 con il magistrale “Nuclear Weapons and Foreign Policy”, a sconfessare (in parte)  l’arma nucleare? La semplice costatazione che essa ha svolto il suo compito storico, ma che ora non è in grado di fornire quello strumento di deterrenza utile a stemperare le minacce del XXI secolo.

Per tutto il periodo della Guerra fredda – in un contesto di bipolarismo  (e conseguente polarizzazione) universalmente accettato – l’agire sinergico del potere deterrente dell’arma nucleare in mano a pochi attori responsabili con il conseguente timore della mutua distruzione garantita (MAD), e delle organizzazioni  internazionali che si confermavano come delle istituzioni “cuscinetto” in grado di fare da filtro, sia alle tensioni bipolari, sia a contenere eventuali movimenti centrifughi, ha garantito non solo la solidità del sistema ma anche una sensibile diminuzione dei conflitti rispetto a tempi passati.

Non è un caso che Luigi Bonanate, in La Guerra, abbia ricordato che dal 1945 al 1989 vi sono stati solo 32 conflitti internazionali (18 dei quali derivanti dalla liquidazione degli imperi coloniali). La solidità e la garanzia di tenuta che l’arma nucleare garantiva al confronto USA-URSS ha, con il tempo, legittimato il sistema bipolare stesso dotandolo di quel riconosciuto prestigio (Hobbes la avrebbe chiamata “gloria”) che ormai – a 20 anni dalla caduta del muro – manca a qualunque attore politico attualmente sul campo.

Ma la fine della guerra fredda ha creato un paradosso. La minaccia di una guerra nucleare tra superpotenze è virtualmente scomparsa, ma la diffusione delle nozioni e delle capacità tecnologiche finalizzate alla produzione di energia hanno, inevitabilmente, aumentato la possibilità di acquisizione di potenzialità nucleare anche nell’ambito militare. Quindi anche paesi politicamente instabili o ideologicamente meno responsabili possono dotarsi di sistemi d’arma atomici (dall’Iran alla Corea del Nord). La crescita esponenziale del terrorismo internazionale, inoltre, aumenta la possibilità di  attentati con armi nucleari. Quindi i realisti veri – indipendentemente dallo schieramento politico di appartenenza – iniziano ad interrogarsi sull’opportunità di modificare i paradigmi della politica di sicurezza.

Il discorso di Omaba sembra aprire nuovi scenari. Il solo fatto che, in coda al discorso, il Presidente abbia ringraziato Praga e Varsavia per il loro coraggio ad ospitare sul proprio territorio i sistemi antimissile, che tanto sono dispiaciuti a Mosca, dimostra che gli Stati Uniti intendono continuare a sviluppare una rete missilistica difensiva, di alto profilo tecnologico, fino a che persisteranno minacce di sviluppi di armamenti nucleari. Con questo discorso Obama ha, implicitamente, reso omaggio a Bush, che tanto si era speso per questo sistema d’arma, dando il via alla produzione dell’intercettore denominato SM-3.

La nuova strategia americana pare prefigurarsi come un mix di strumenti diplomatici e tecnologici di controllo sulla produzione e distribuzione di materiale fissile, di  diffuse reti di batterie antimissile in grado di difendere gli Stati Uniti ed i suoi alleati e di una riconversione degli arsenali verso armi di nuova generazione tecnologicamente molto avanzate che altri paesi non sono in grado di sviluppare, al fine di creare un nuovo (ancorché momentaneo) “monopolio” tecnologico militare. Non è un caso che i think tank americani  stiano dedicando risorse umane e tecnologiche nello sviluppo di sistemi d’arma innovativi che – senza provocare perdite umane strategicamente sensibili – provochino la paralisi del nemico. Si parla delle armi a impulsi laser, siano esse montate su aerei o su satelliti, in grado di colpire missili e satelliti nemici o delle E-Bomb in grado, nel loro raggio di azione di avere l’effetto di una tempesta elettromagnetica che inibisce tutti gli apparati elettrici ed elettronici, senza provocare vittime se non nell’epicentro dello scoppio.

Obama appare, quindi, più realista di quanto molti maître à penser, soprattutto europei, vorrebbero. Se il successo mediatico delle sue dichiarazioni è stato immediato ci si deve chiedere se ha avuto medesimo riscontro anche nelle stanze che contano. Se il polso della situazione deve essere desunto dalle risposte che Mosca e Pechino hanno dato a Hillary Clinton, che chiedeva di condividere un testo comune di condanna per il lancio del missile nord-coreano, come violazione delle risoluzioni Onu n. 1718 e n. 1695, la strada da percorrere è ancora lunga. Le due potenze, infatti, nonostante le promesse fatte da Medvedev e Hu Jintao a  Obama in quel di Londra si sono smarcate dalla condanna nei confronti di Pyongyang. E’ chiaro che esse non desiderano un mondo che rinunci all’arma atomica, perché il loro sviluppo tecnologico non consente di sostituire i vecchi ordigni con sistemi d’arma competitivi, e quindi non vogliono favorire un potenziale monopolio americano nell’ambito delle nuove tecnologie a finalità bellica.

Al di là della considerazione che una eventuale messa al bando dell’arma nucleare avverrà a tempi molto lunghi è interessante notare come il nuovo presidente americano – seppur con qualche sbavatura – si nuove sull’arena internazionale con una spregiudicatezza politica e strategica che fa intravedere un ritorno in auge del realismo “classico”, dopo gli anni di politica “etica” di Gorge W. Bush.