Obama vuole riannodare con Wall Street? Scoprilo su “Longitude”

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Obama vuole riannodare con Wall Street? Scoprilo su “Longitude”

14 Febbraio 2011

La foreign policy community italiana da oggi è un po’ meno sola. E’ in edicola il primo numero di Longitude, un nuovo, pulsante mensile di politica internazionale in lingua inglese diretto da Pialuisa Bianco – consigliere per il Forum Strategico della Farnesina. Impaginazione accattivante, bella grafica. Un soffio d’aria fresca insomma. Ma il mensile è soprattutto ricco di contenuti. Gli articoli del primo numero hanno nomi pesanti: c’è il Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, l’ad di Eni, Paolo Scaroni e poi tanti public servant, corrispondenti, imprenditori e accademici.

In un piacevole e morbido viaggio che guida chi legge nei meandri degli affari globali, dalla geopolitica alla geoeconomia, Longitude è una lieta sorpresa editoriale. Nel numero in uscita anche un po’ di Occidentale: un articolo del nostro direttore, Giancarlo Loquenzi, dà conto della virata amichevole del presidente Obama nei confronti della "biz comunity" statunitense, dalla grande finanza alla grande impresa. Vi proponiamo il testo in italiano, apparso in originale in lingua inglese su Longitude#01 di Febbraio. In edicola e in libreria.

 

L’ostilità ammansita di Barack Obama. I primi due anni dell’amministrazione Obama sono stati segnati dal sospetto che il presidente degli Stati Uniti abbia un’inclinazione ostile verso il libero mercato e il mondo degli affari in genere. Alcuni sostengono addirittura che Obama sia “il più ostile della storia” nei confronti de settore privato. Un’accusa a cui il suo staff è stato solito rispondere dando la colpa alla frustrazione dei “super-ricchi” verso un presidente che per la prima volta mette in discussione il loro potere.

Il 2011 invece inizia con due importanti evidenze: la prima è che la Casa Bianca ha intenzione di aprire una nuova fase verso la business community americana; la seconda è che Obama ha riconosciuto che il problema esiste.

L’operazione di riconquista dei cuori e delle menti dei chief executive officer americani è cominciata subito dopo la batosta delle elezioni di mid-term. Per l’esattezza a metà dicembre dello scorso anno, quando Obama ha ricevuto alla Blair House una trentina tra i maggiori CEO nazionali. La lista degli ospiti comprendeva, tra gli altri, Kenneth Chenault di American Express, Jeffrey Immelt di General Electric, Indra Nooyi di PepsiCo, Eric Schmidt di Google e ovviamente Bill Gates di Microsoft e Warren Buffett di Berkshire Hathaway.

Obama aveva scelto bene il momento affinché l’incontro si tenesse sotto i migliori auspici: nei giorni precedenti infatti il presidente era riuscito a chiudere un accordo con il Partito Repubblicano che estendeva per altri due anni i tagli fiscali dell’era Bush per le fasce più alte di reddito. Un compromesso che aveva fatto storcere il naso a molti nel suo partito ma che quel giorno alla Blair House lo faceva brillare di luce nuova agli occhi dei miliardari presenti.

Non si può dire che in quell’occasione sia scoccata la scintilla che Obama si aspettava ma certo quel velo di diffidenza e di sospetto anche animava i due fronti ha cominciato a sollevarsi e a svelare, se non altro, fino a che punto la situazione fosse divenuta grave.

Tanto che nelle settimane successive e fino al giorno in cui scriviamo le mosse dell’amministrazione tese a recuperare la fiducia degli imprenditori e a riverniciare l’immagine di un presidente anti-business si sono moltiplicate.

Forse la più significativa, anche se al momento il suo peso è solo simbolico, è la scelta di William Daley come nuovo capo dello staff della Casa Bianca dopo l’uscita di Rahm Emanuel lo scorso ottobre. La nomina è stata notata con una certa sorpresa a Washington per almeno due motivi: con l’ingresso di Daley nell’inner circle obamiano si infrange il record di un presidente che non aveva nel suo staff alcun rappresentante di primo piano del mondo dell’impresa. Molti avvocati, docenti universitari, think tankers, membri di Ong, ma nessuno che avesse mai assunto o licenziato qualcuno, approvato un bilancio, valutato un business plan. Daley, che era fino a ieri il chairman di JP Morgan, ha tutte le credenziali in regola per tamponare quella falla.

Il secondo motivo è che Daley, pur provenendo da una potente famiglia di democratici di Chicago (il fratello Richard è l’attuale sindaco della città) era considerato tutt’altro che un sostenitore di Barack Obama. Anzi le sue posizioni pubbliche, in particolare contro la riforma sanitaria e la legge sulla nuova regolamentazione finanziaria, erano servite proprio a sostenere la tesi della frattura tra il Presidente e il mondo del business.

L’efficacia della scelta obamiana si può ben valutare guardando allo scandalo che essa a suscitato nella parte liberal del suo schieramento, oltraggiata dal vedere un esponente del “big business bancario”, centrista e moderato, entrare nel sancta sanctorum del Presidente.

Al contrario hanno festeggiato quegli stessi ambienti economici e produttivi che avevano vissuto come un’offesa la mancanza di uno di loro nello staff presidenziale.

Il presidente della Us Chamber of Commerce, Thomas Donohue, che è stato uno dei più feroci critici delle politiche economiche di Obama e ha collocato tutto il peso la sua associazione sul versante repubblicano, ha invece applaudito la nomina di Daley: “siamo pronti a lavorare con lui – ha detto – per accelerare la ripresa, far crescere l’economia e creare nuovi posti di lavoro”.

Ancora più significativa la presa di posizione favorevole del presidente del Business Roundtable, un gruppo di pressione che raccoglie 170 tra i più influenti CEO d’America. Ivan Seidenberg, lui stesso CEO di Verizon, è stato tra coloro che più apertamente hanno accusato Obama di coltivare un atteggiamento anti-business. Nel giugno scorso, con una dichiarazione che fece scalpore, disse che le misure contenute nella riforma sanitaria, nella nuova regolamentazione finanziaria e nelle politiche ambientali, “creano un ambiente sempre più ostile agli investimenti e alla nuova occupazione”.

Ma sulla nomina di Daley, Seidenberg non ha avuto dubbi: “è quello che ci vuole per far avanzare le politiche necessarie alla crescita economica e per rimettere l’America a lavoro”.

Che il vento fosse girato a favore di Obama nelle ultime settimane lo si era già percepito quando lo stesso Seidenberg, parlando in una pubblica occasione del Business Roundtable, aveva plaudito l’accordo sui tagli fiscali e lo scongelamento di un importante accordo di libero scambio con la Corea del Sud che i democratici aveva a lungo osteggiato. “Il presidente ha mostrato di voler imparare: le cose accadute nelle ultime settimane sono straordinarie”. Nonostante il tono di degnazione di Sodenberg nei confronti di Obama, molti osservatori ritengono che un disgelo tra la Casa Bianca e il Business Roundtable possa essere alle porte e viene considerato un elemento chiave della nuova strategia di attenzione al settore privato inaugurato in questa seconda parte del mandato.

L’impressione è che il mondo del business sia disponibile, dopo molte delusioni, a dare a Obama una seconda chance. A dicembre il Business Roundtable ha reso nota la sua “Roadmap for growth” che se messa a paragone con un simile documento rilasciato a giugno mostra piuttosto bene il cambio di clima.

Nel primo si additavano impietosamente tutti i limiti delle politiche economiche obamiane e si incolpava la maggior parte della legislazione voluta dal Presidente per il blocco degli investimenti e delle assunzioni da parte delle imprese, messe alla mercè di una “valanga di norme” difficili da interpretare in termini di costi operativi e potenzialmente “ostili alla crescita”.

Anche la questione degli accordi di libero scambio era evocata come un punto critico nei rapporti con l’Amministrazione che teneva fermi da tempo trattati commerciali con la Corea, la Colombia, Panama e la Russia, per citare i più importanti.

Nella nuova “Roadmap for growth” gli elementi critici restano ma il tono è cambiato. Si riconosce che alcune delle leggi vagheggiate dall’Amministrazione e temute dagli imprenditori non hanno mai visto la luce. In particolare alcune norme sulla tassazione dei profitti realizzati all’estero e nuove procedure organizzative che avrebbero reso più intrusivo il ruolo dei sindacati. Il documento apprezza anche l’enfasi messa recentemente da Obama sulla necessità di rinnovare il sistema educativo americano che, tranne alcune vette di eccellenza, nel suo complesso scala al contrario le classifiche mondiali; così come l’urgenza di rimettere mano alla rete di distribuzione elettrica nazionale, da tempo in condizioni miserevoli.

L’approccio del documento ha un tono “bi-partisan” e molte delle proposte contenute sembrano pensate apposta per trovare il favore di Obama e dei democratici o quanto meno per mettere alla prova le loro intenzioni. E’ il caso della molto attesa riforma del mostruosa macchina fiscale americana, più volte promessa dal Partito Democratico durante la campagna elettorale ma mai messa in pista. O la richiesta di rivedere le norme sulla responsabilità civile delle imprese che costringe le compagnie americane a spese legali molto più alte di tutti i competitor occidentali.

E infine si chiede con forza che le imprese vengano ascoltate quando si stanno per introdurre nuove leggi che possano intaccare la loro operatività o i loro profitti, specie in tema di tutela dell’ambiente. In Italia si tratta di una vecchia conoscenza e si chiama “concertazione”, negli Usa se ne sente la mancanza. A Obama non dovrebbe dispiacere poi troppo l’invito a prendere sul serio le posizioni dei grandi industriali, stanchi di essere ridotti a figure di sfondo per “photo opportunity”.

Restano ovviamente aperti i fronti più controversi: secondo i vertici dell’impresa americana “una frammentaria legislazione sulla sanità, sull’energia e sulle nuove regole finanziarie, contiene norme che creano grande incertezza nelle imprese e che frenano gli investimenti e decisioni riguardo nuove assunzioni”. “Quello che vogliamo – ha concluso Seidenberg presentando la Roadmap – è fermarci, prendere un bel respiro e sistemare tutto quello che non funziona come si sarebbe voluto”.

I Ceo riuniti nel Business Roundtable sanno che non possono aspettarsi da Obama il ritiro di due riforme così legate alla sua presidenza come quelle sulla sanità e la finanza, ma si aspettano una serie di compromessi a loro vantaggio e sono convinti che il momento sia favorevole.

Il Presidente ha non solo bisogno di modificare l’immagine di un leader ostile al mondo degli affari e al libero mercato, ma soprattutto ha bisogno che il settore privato subentri al più presto nel fornire quegli stimoli all’economia che finora sono stati a carico del contribuente e che, dopo aver portato il deficit di bilancio a livelli mai raggiunti, sono ormai in via di esaurimento.

La Federal Reserve ha reso noto di recente che le 500 maggiori imprese americane hanno accumulato nei loro bilanci qualcosa come 1.8 bilioni di dollari in contanti: un record mai registrato nell’ultimo mezzo secolo considerando la percentuale sugli asset complessivi. Eppure le compagnie non immettono questi soldi sul mercato per aprire nuovi stabilimenti, comprare macchinari, assumere personale, produrre innovazione e crescita. Sono come paralizzate dall’incertezza e dalla mancanza di prospettive chiare.

Obama sa molto bene tutto questo e sa anche che se le imprese cominciassero ad investire anche una minima parte delle loro riserve monetarie questo avrebbe un effetto infinitamente più visibile e duraturo sulla ripresa rispetto agli stimoli governativi.

La sua missione è dunque quella di conquistarsi la fiducia di chi può investire e non lo fa, invertendo una retorica, uno stile di discorso pubblico, che finora è stato in effetti piuttosto ostile alle imprese. Si può osservare, a parziale discolpa del Presidente, che il suo atteggiamento è stato dettato anche da una serie di contingenze avverse.

Obama ha dovuto far i conti con una crisi finanziaria dalle dimensione inusiatate durante la quale l’opinione pubblica americana – “Main street” – aveva bisogno che il suo leader prendesse le distanze da “Wall street” dove, secondo il comune sentire, si annidavano guadagni spropositati, speculazioni vertiginose e comportamenti al limite del lecito e spesso oltre quel limite. Aggiungiamo a tutto questo anche l’esplosione della Deepwater Horizon, la piattaforma della BP da cui sono fuoriuscite centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio nel mare del Golfo del Messico.

Lo scontro con i vertici della BP per inchiodarli alle loro responsabilità, ha portato Obama ad alzare i toni contro la sete di profitto e la poca sensibilità ambientale delle imprese. Anche in questo caso era probabilmente quello che i cittadini americani volevano sentirsi di dire, ma ha lasciato una eco sgradevole negli ambienti della grande impresa e non solo quella petrolifera.

Persino l’allora capo dello staff della Casa Bianca Rahm Emanuel cercò di mettere in guardia l’amministrazione da quello che venne chiamato il fattore “G”, mettendo insieme il disastro del Golfo, la crisi del debito greco e le polemiche con la Germania sull’austerità fiscale, per segnalare come tutto questo stesse creando reazioni di sfiducia nelle imprese.

Un malumore diffuso, colto molto bene da uno dei giganti dell’imprenditoria americana, Jeffery Immelt, presidente e CEO di Generale Eletric: “La gente è in ansia, il livello delle nostre esportazioni è patetico, invece dobbiamo riportare l’America a essere quella potenza economica che era una volta. Ma questo non si può fare quando il governo e gli imprenditori non sono in sintonia”.

Il Financial Times riportò anche una frase off the record dello stesso Immelt pronunciata in una cena a Roma: “Al mondo degli affari non piace il Presidente e al Presidente non piace il mondo degli affari”. Una frase che costrinse GE, con una mossa senza precedenti, a distinguersi dalle dichiarazioni del suo CEO.

La biografia personale e politica di Obama spiega in parte il suo rapporto agrodolce con il business. L’esperienza da organizzatore comunitario a Chicago, a contatto la parte più povera della popolazione, spesso con disoccupati di grandi aziende che andavano avanti a forza di licenziamenti. Poi l’esperienza di senatore statale a Springfield nell’Illinois, ancora una volta alle prese con i problemi legati alla forte deindustrializzazione di quell’area e alle scelte delle imprese di creare posti di lavoro all’estero piuttosto che in patria. Anche tra i suoi record da senatore federale e tra i temi della sua campagna elettorale, piena di suggestioni e di promesse, è difficile rintracciare qualche positivo accenno al mondo delle imprese. Un mondo nel quale Obama non vanta neppure veri amici.

D’altro canto Obama è molto più pragmatico di quanto sia affetto da ideologie. Utilizza di volta in volta i toni e la retorica che ritiene più utili nella situazione data. Non gli sarà difficile disfarsi del suo bagaglio di diffidenze verso il business se la fase politica lo richiede e lo rende possibile. E quella fase politica è arrivata, perché è proprio sul terreno dell’occupazione e della crescita economica che, durante il 2011, Obama si gioca il suo secondo mandato. E si può navigare tra i marosi della peggiore crisi economica dal 1929 dando la colpa all’avidità e agli errori di imprenditori e banchieri. Più difficile è rimettere in piedi l’economia nazionale senza tendere loro la mano.

(Tratto da Longitude)