Obama vuole un Islam indonesiano ma l’Indonesia non è uno stato islamico
10 Novembre 2010
Nelle 19 ore trascorse in Indonesia (e conclusesi in anticipo per timore che una nuova eruzione del vulcano Merapi lo bloccasse nel Paese) il presidente americano Barack Obama, ora in Corea del Sud, ha firmato un accordo di partnership strategica, parlato al mondo musulmano da un’università di Giakarta e definito l’Indonesia “un esempio per il mondo” per i progressi democratici e la coesistenza religiosa. Qui Obama ha notato che gli sforzi per ricostruire la fiducia stanno dando frutti, ma che la strada è ancora molto lunga. “Le relazioni tra gli Usa e le nazioni musulmane sono state difficili per molti anni. Da presidente è una mia priorità iniziare a ripararle”, ha detto. “Possiamo scegliere di definirci per le nostre differenze e accettare un futuro di sospetti e sfiducia. Ma possiamo scegliere di fare il lavoro duro e creare una base comune, impegnandoci per un progresso comune”, ha poi aggiunto, sottolineando che il riavvicinamento richiede l’impegno di tutti.
A un anno di distanza dal discorso del Cairo, Obama si è rivolto di nuovo al mondo musulmano scegliendo come tribuna l’Indonesia, il Paese che ha più abitanti al mondo di fede islamica. Un Islam moderato, di taglio più spirituale che ideologico, che sembra convivere pacificamente con le altre fedi in un contesto pluralistico e inclusivo. Così il Presidente può descrivere Jakarta come "un ponte" fra Oriente e Occidente e quello indonesiano come un modello di superamento del conflitto di civiltà.
Il discorso che Obama ha tenuto nasconde una realtà più complessa. Nei giorni scorsi il Presidente ha detto che la sua amministrazione sta facendo tutti gli sforzi possibili per tendere la mano all’islam anche se questo è "un progetto ancora incompleto". La difficoltà di superare lo stallo era un passaggio cruciale del discorso del Cairo: le cose potranno cambiare, ma non adesso. L’Indonesia è una finestra sul futuro dell’islam, ma l’islam non è ancora l’Indonesia.
E non è detto che uno voglia diventare l’altro. Dopo l’indipendenza dall’Olanda e il lungo periodo della dittatura di Suharto, l’Indonesia ha conosciuto un revival religioso culminato, alla fine degli anni Novanta, con l’apertura di un gran numero di moschee e scuole coraniche; nonostante questo, nella costituzione non c’è scritto che il Paese è uno stato islamico. Le altre fedi e i culti diffusi nelle migliaia di isole dell’arcipelago lo dimostrano.
Il problema se mai sono le spinte islamiche fondamentaliste e ultrafondamentaliste che minacciano una società aperta come quella indonesiana. La lunga scia di attentati avvenuta tra il 2002 al 2005, dall’eccidio al night club di Bali all’attentato all’ambasciata australiana di Jakarta, testimonia che al Qaeda, o meglio il suo braccio locale, la Jemaah Islamiyah, ha scelto l’isola come uno dei fronti dove scatenare la "guerra civile" contro apostati e musulmani deviazionisti, che hanno rinunciato a una lettura ed interpretazione letterale del Corano.
Non è solo una questione di estremismo. Che strano tipo di islam moderato è quello in cui il ministro della comunicazione, un conservatore, abbia espresso stupore e anche un po’ di malcelata insopportazione quando la first lady Michelle, scesa dalla scaletta dell’Air Force One, gli ha stretto la mano? (Lei a lui.) Il ministro infatti crede che non sia moralmente lecito toccare una donna in pubblico, neppure se è la moglie del Presidente più amato del Paese.
Quest’ultimo elemento, l’amore degli indonesiani verso Obama, dovrebbe garantire il successo al discorso pronunciato oggi. La forza oratoria del Presidente nasce dall’identificazione che Obama riesce a creare tra la sua esperienza personale e la biografia dell’America (e del mondo). Su questa parola d’ordine, identità, ha costruito il suo successo elettorale e l’onda lunga del consenso pubblico.
A Jakarta la sua biografia diventa decisiva visto che qui Obama visse da bambino, con sua madre e il compagno di lei, che a volte lo accompagnava nelle moschee, prima che "Barry" crescesse scegliendo la religione cristiana. Obama ha detto che quella esperienza della sua vita gli ha insegnato i principi della tolleranza, rafforzando la sua convinzione che esistano delle comunanze fra civiltà diverse, e che si possa trovarle – ragionando in termini strategici – percorrendo la via del multilateralismo e di un mondo multipolare.
Il Presidente ha perso le elezioni di miderm pagando fino all’ultimo voto il prezzo politico delle sue scelte interventiste in economia, che non sono piaciute agli americani, ma il messaggio più profondo della sua presidenza non riguarda la riforma sanitaria o il risanamento di Wall Street. Questa è la prassi politica, su cui per adesso Obama non si è dimostrato all’altezza delle promesse. Ma su quell’altro piano delle identità e della ridefinizione della frontiera americana, e sul posto che lui stesso giocherà una volta conclusa la presidenza, Obama conserva un appeal molto forte, sia nella base del suo corpo elettorale, sia a livello globale e mediale. Nonostante la sconfitta alle midterm, ha ripreso a salire nei sondaggi; Gallup lo dà al 47 per cento. Il viaggio in Asia potrebbe essergli propizio.