Occidente, vale a dire Magna Europa
25 Luglio 2012
Come rilevato brevemente da Roberto Santoro su queste pagine, la parola Occidente è uno dei termini più bistrattati della nostra epoca. Le ragioni sono molteplici e legate alla cattiva comprensione del vocabolo. L’Occidente è vessato dalla sinistra per le ragioni che si diranno – per lo più legate al fatto che in esso la sinistra vede rappresentato tutto ciò che essa, per sua intima natura (una natura corrosiva, irrequieta e debolista), ha tentato di rivoluzionare, abbattere, cambiare: identità (cristiana e tradizionale), pensiero forte –; ma è anche avversato da certe forze ascrivibili, in qualche modo, al centrodestra, le quali vedono in esso l’esatto opposto, pensandolo inficiato in modo irreparabile dal nichilismo progressista, dal pensiero debole, dal mero consumo materialistico di merci, per di più esportato fuori di sé, quasi ad infettare altre realtà culturali.
Il problema di fondo è che il termine stesso è ambiguo perché formatosi in chiave oppositiva e parzialmente vaga: qual è il significato di Occidente? Esso ha un senso solo se posto in relazione con il termine opposto: Oriente. C’è un Occidente perché c’è un Oriente e viceversa. Tuttavia, se ci si fermasse alla mera geografia, si sbaglierebbe. L’opposizione, infatti, non avrebbe senso se fosse meramente fondata sulla collocazione, in quanto l’Occidente rappresenta grossomodo l’insieme di Europa e Americhe e la distinzione tra i due “blocchi” presuppone, dunque, uno spostamento immaginario sul globo terracqueo che parta dal blocco Euro-Americano per giungere a quello “orientale”, cioè muovendosi verso l’Est dell’Europa. Ma, se, anziché muoversi dall’“Occidente” verso l’“Oriente”, partendo dal blocco Euro-Americano, ci si muovesse nel medesimo senso, ma partendo dall’Oriente – ad esempio, dalla Cina –, immediatamente l’“Occidente”, e nello specifico e in prima battuta le Americhe, diverrebbero l’Est – dunque l’“Oriente” – della Cina.
La geografia quindi non basta. Tanto più che la distinzione – al cui interno rientra anche il termine Europa – è del tutto innaturale da un punto di vista geografico: in geografia si parla di macroaree, quali i continenti, quando si ha a che fare con un continuum di terra vasto, ininterrotto e circondato dai mari. Ma, in tale definizione, non può certo rientrare l’area “occidentale” che è l’insieme di un continente geografico (l’America) e di un continente improprio, culturale (l’Europa), né vi rientra l’area “orientale”, la quale è unita in modo determinante a una parte dell’Occidente, l’Europa stessa, formando con essa un unico vero continente geografico (quello Euro-Asiatico). Perché dunque si oppongono le due aree geografiche nella storia della nostra civiltà sin da epoche risalenti? La ragione è culturale: al di là di una iniziale lontananza dovuta alla difficoltà legata ai mezzi di trasporto, v’era la consapevolezza che i fondamenti di principio della civiltà a “Ovest” erano – e sono – diversi da quelli presenti ad “Est”. Ciò che, prima ancora della scoperta delle Americhe, distingueva l’Europa – rectius, la Cristianità europea – dall’Oriente non era l’essere un continente.
Essa, non essendo un continente in senso geografico, può essere considerato continente solo in senso culturale: in altri termini, pur nelle diverse specificità da paese a paese, essa è continente a sé perché ha avuto al proprio interno un’omogeneità di principi, di comportamenti, etc. Per cui, ciò che la distingueva dall’Oriente era il modello di civiltà: la religione, i principi, la struttura sociale – fondata, in Europa, su di una varietà molto forte di comunità locali parecchio autonome, per quanto unite da un collante religioso-culturale e politico. Il passaggio dall’opposizione “Europa-Oriente” a quello “Occidente-Oriente” sorge più tardi sulla medesima scia: una volta scoperta l’America e colonizzata dagli europei, si creò un vincolo culturale tra le due sponde dell’oceano. È ciò che lo storico olandese Hendrik Brugmans ha chiamato «Magna Europa», vale a dire l’“Europa che si perpetra fuori dall’Europa”, concetto ripreso in Italia principalmente da Giovanni Cantoni (in Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa): come un tempo la Grecia aveva esportato la propria cultura fuori dal proprio territorio attraverso le colonie della Magna Grecia, così anche l’Europa aveva fatto similmente con le Americhe – e, successivamente ma in misura diversa, con l’Oceania e altre parti del globo –, venendo a creare delle “colonie” – ben presto resesi autonome – con le quali aveva un’affinità e continuità/contiguità culturali. Ciò che, nello specifico, caratterizza l’Occidente, vale a dire il ceppo culturale europeo e le sue “colonie”, è stato l’incontro tra alcuni principi cardinali: l’Europa fonda se stessa – e, di riflesso, le sue “colonie” – sull’armonizzazione di pilastri tra di essi complementari, quali la ragione greca, la speranza cristiana – in modo incompleto prefigurata già nel messianismo ebraico – e, in misura minore, l’universalismo romano e le consuetudini germaniche: il prodotto più importante dell’Occidente è lo sviluppo razionale e progressivo della conoscenza delle cose, la quale sorge proprio dall’incontro tra ragione greca e speranza cristiana e la cui espressione più evidente, ma non unica (e non assolutizzabile), è il metodo scientifico, vale a dire l’indagine razionale della realtà fisica, un metodo che, nonostante le singole innovazioni tecniche scoperte da altre civiltà, nessuno, tranne l’Occidente cristiano, ha potuto produrre, come rilevato tra gli altri da padre Stanley Jaki O.S.B. nei suoi scritti: infatti, solo se Dio è Ragione (il greco Lógos) – come avviene nel cristianesimo, nell’incontro tra speranza cristiana e ragione greca –, e solo se l’uomo è simile a Dio (a sua immagine) e quindi solo se è anch’egli razionale, la realtà creata da Dio sarà ordinata, razionale, e quindi indagabile dall’uomo con la ragione.
E, solo se v’è una fiducia, una speranza (ragionevole) di giungere a qualche risultato tramite questa indagine, ha senso l’indagine stessa. Questo incontro, che Benedetto XVI nel suo discorso all’Università di Regensburg del 2006 ha definito «ellenizzazione della fede», ha permesso lo sviluppo armonico del concetto di ragione, evitando che esso fosse rifiutato in un fideismo cieco – come avvenuto nell’Islam da un certo momento storico in poi e come, in un certo senso e in qualche misura, avvenuto nella Modernità in Occidente – ed evitando che, al contempo, esso si rinchiudesse in un altrettanto fideistico e cieco razionalismo – come avvenuto nelle linee egemoniche del moderno. A sua volta, questo fecondo incontro, fu generalizzato attraverso il ricupero dell’ottica universalista romana e difeso dalla civilizzazione e depurazione dei rozzi costumi germanici operati nella cavalleria. È questa l’impalcatura che, pur tra luci e ombre – ombre che però non intaccano la bontà del principio cardinale occidentale –, viene a formarsi nella civiltà cristiana europea.
Ed è questa civilizzazione europea che si è perpetuata nelle colonie della Magna Europa e, dunque, in quel blocco culturale che viene definito Occidente. Esso formerà un bagaglio di principi trascendenti continuamente implementati – tra cui quelli legati al concetto teologico di persona –, ripudierà – con la distinzione agostiniana tra Civitas Dei e civitas homini – le pretese di creare in terra irrealizzabili “età auree”, e quindi definitivi “paradisi terrestri”, e conseguentemente svilupperà il concetto di Tradizione, inteso come continua interpretazione razionale della realtà, e la relativa ottica tradizionale, vale a dire l’ottica secondo cui è possibile avanzare mediante l’indagine razionale della realtà (in modo mai definitivo) rispetto alle conoscenze passate, ma sempre fondandosi su queste ultime, in un costante, precario, ma necessario equilibrio tra vecchio e nuovo. Come scriverà Giovanni di Salisbury, attribuendo la frase a Bernardo di Chartres: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, sicché possiamo vedere più cose di loro e cose più lontane, non per l’acutezza della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti» (Metalogicon, I, 24).
Questa specificità occidentale – che ha prodotto evidenti progressi per il mondo intero che con essa si è rapportato – ha subito peraltro un percorso degenerativo già sul finire dell’Evo Cristiano – impropriamente e spregiativamente (in quanto si dimentica il percorso di civilizzazione qui delineato) detto «Medio Evo» dalla propaganda progressista post-illuminista. Con l’avvento della Modernità, l’irrazionalismo protestante – Lutero utilizzerà persino parole volgari contro la ragione – e il razionalismo rinascimentale neopagano destabilizzeranno l’edificio dell’ellenizzazione, producendo il fenomeno o processo di «de-ellenizzazione» – anche definibile come Rivoluzione (o secolarizzazione). Da tale momento la Modernità, pur sopravvivendo nel suo seno una linea minoritaria non de-ellenizzante – che muove da Pascal, passando per Vico, fino ad autori cronologicamente più vicini –, produrrà una linea egemonica di pensiero dai molti volti – illuminismo, romanticismo, idealismo (e specialmente hegelismo), marxismo, etc. –, ma dotato sempre del medesimo spirito di destabilizzazione dell’equilibrio interno alla ragione: tale linea sposerà in modi diversi una visuale relativista che assolutizzerà alcuni elementi della realtà e ne eliminerà degli altri attraverso le ideologie, ma mai presupponendo la capacità della ragione di esplorare il reale a 360°, riducendo la ragione stessa alla mera ragione dell’utile (la ragione scientifica cosiddetta «strumentale») – come avvenuto nell’illuminismo, nel marxismo e ai nostri giorni nella tecnocrazia –, o rivalutando l’irrazionalità del sentimento – come nella reazione romantica all’illuminismo o nell’emozionalismo contemporaneo.
Per queste ragioni, esportando se stessa, l’Europa ha prodotto sì una Magna Europa, ma la ha anche infettata con i suoi germi. Tali germi si sono espressi politicamente a sinistra – e anche in certe pseudo“destre” – ed è qui la ragione del rifiuto dell’Occidente che proviene da sinistra e da quelle pseudo“destre”, provenienti dall’alveo della sinistra come il nazionalsocialismo: per la loro essenza che tende alla “definitività” utopica, tutte le loro ideologie – anche e soprattutto laddove si presentino come “tradizionaliste” o “passatiste” – si rivoltano contro la Tradizione occidentale, contro il lógos e la ricerca razionale – e, in ultima istanza, contro il Dio-Lógos . Ciò che la sinistra e le forze con essa ibridate odiano nell’Occidente sono appunto le sue radici greco-ebraico-cristiane che i disegni ideologici progressisti hanno cercato di soppiantare per ricercare mete (dissimulate o esplicite) di perfezione definitiva.
D’altro lato, invece, altri, provenendo da un brodo culturale che non comprende del tutto il senso della Tradizione, ma percependo, in qualche modo, questo processo di degenerazione dell’Occidente, lo rifiutano perché, chiudendo gli occhi di fronte alla continua presenza in seno ad esso di quelle linee di pensiero minoritarie che coltivano le radici occidentali, vedono in esso unicamente la distruzione di principi permanenti in nome delle mete ideologiche – o del consumo materiale – propugnate dalle sinistre. Ma tale visuale è del tutto unilaterale, rifugiandosi spesso, per di più, in cedimenti o fughe esotiche, irrazionalistiche e illogiche verso altre culture (che non sono dotate del patrimonio del lógos e che, per ciò stesso, sono altrettanto corrosive quanto lo sono i germi occidentali): ciò che costoro credono di difendere è il risultato di quelle radici che lo stesso Occidente – ed esso soltanto – ha prodotto, ma ciò che non comprendono è che, nonostante esso sia afflitto da un male plurisecolare, la cura non può provenire che dal suo interno, dalle proprie stesse radici, che sono unicamente sue.
Ancor di più, sebbene sia possibile un «viaggio di ritorno di Colombo» – così come viene definito dal filosofo tradizionalista argentino Alberto Caturelli (e ripreso dal succitato Giovanni Cantoni in Per una civiltà cristiana nel terzo millennio) a intendere la possibilità che le periferie, le “colonie” della Magna Europa preservino le radici europee e “riconvertano” il centro ormai declinante –, come ben notava lo storico Christopher Dawson (ne Il dilemma moderno), questa cura deve provenire anche, in certa misura, dal luogo in cui tali radici sono partite inizialmente: l’Europa stessa. O essa – e con essa tutto l’Occidente – riconoscerà (e “praticherà”) le proprie radici (soprattutto greche e cristiane), o si ritroverà fagocitata da quelle civiltà che, pur usufruendo dei suoi prodotti storici – specialmente la tecnica prodotta dal metodo scientifico –, non sono però capaci di abbracciarne le radici. In nessun caso si tratterà però di lasciare l’Occidente a morire nel nichilismo che lo corrode – rifiutando persino il termine stesso Occidente –, bensì si tratterà di rinnovarlo dall’interno, conservando ciò che di buono c’è, preservando il suo patrimonio sempre più rinnegato, ed emendandolo da ciò che lo va erodendo.