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Occupazione!

Occupazione!

03 Luglio 2011

Belli e suggestivi i quadri della paesaggistica romantica del sette-ottocento, e poi le fotografie seppia del primo novecento con le immagini della campagna romana, i carretti, la caccia alla volpe, le contadine coi sottanoni, e sullo sfondo quelle serie di archi barbuti di felci, estesi fino all’orizzonte: gli acquedotti. Oggi si può fare una struggente passeggiata nel Parco, fra la via Appia e la Casilina, subito fuori Roma, e sognare appoggiati ai grandi tufi dei pilastri scaldati dal sole, su cui corrono gli archi dell’acquedotto Claudio, il più imponente, dell’Appio, dell’Anio Vetus e del Novus, e gli altri. Cosa ci può essere di più profondamente intrecciato con la natura di questi ruderi, di più spirituale ed evocativo della storia e dell’ardimento dell’architettura imperiale?

Vorremmo azzardare una ricostruzione d’epoca.

Ecco cosa sicuramente succedeva venti secoli fa di fronte a queste romantiche rovine (oggi) ma probabilmente ingombranti manufatti industriali (allora). I parrucconi, gli arruffapopoli, e i babbei c’erano a quei tempi come adesso. Immaginiamo un qualche Marcus Rompius, un qualche Grillus, e una masnada di contadini, a imprecare contro quegli archi che spaventavano i maiali e facevano andar via il latte alle capre, che impedivano la vista dei colli vicini, e con la loro altezza bloccavano il ponentino rinfrescante del pomeriggio diffondendo le pestilenze. Facilissimo sarà stato per Rompius, proprietario dei terreni e Grillus, tirapiedi in cerca di popolarità, infiammare con queste e altre baggianata le torme di contadini creduloni, e mandarli a occupare i cantieri degli acquedotti. Naturalmente trascurando del tutto ogni pensiero sull’utilità del progetto, l’acqua per la città, le terme, le fontane, l’igiene, il benessere di tutti.

E’ più che certo che all’epoca la tolleranza non doveva essere molto alta, e i metodi per disperdere i dimostranti probabilmente erano un tantino più bruschi di quelli che si può permettere la polizia come la vediamo al lavoro nella cronaca contemporanea.

Oggi giornali e TV sono pieni di gran cartelli NO TAV, di poliziotti in assetto antisommossa e di dimostranti che occupano i cantieri. Nel leggere i commenti ai fatti ricompaiono gli stessi (probabilmente) luoghi comuni di allora. Difendiamo il bosco, pensiamo ai cervi della valle e all’aria pulita per i bambini, basta con le macchine. Si cerca il consenso descrivendo il diavolo per quanto è brutto, ma non si parla mai dell’altro aspetto della questione, quello positivo, che da qualche parte deve pur esserci. Certo, il viadotto del treno ad alta velocità potrà costringere il pulmino delle elementari di Borgo Sottoripa a fare un giro più lungo; e magari l’orticello di padron Pautasso non produrrà più quei buoni cetrioli, ma forse vorrà anche dire che ottocento tir alla settimana non passeranno più per questa pittoresca strada stretta inquinando tutta la valle, e il nostro paese farà un altro passetto verso la federazione che intanto marcia veloce. Non siamo tecnici, e quindi non possiamo affrontare la questione coi dati, ma non ci basta sentire qualcuno gridare forte NO TAV per convincerci.

La prima scervellata reazione, ogni volta che si propone qualcosa di nuovo, sembra essere la stessa: “No! Non sappiamo bene di che si tratta, comunque, no! Occupiamo!” E più grossa è la novità, più forte l’opposizione, per cui quello che a lungo termine può essere utile per molti è spesso bloccato dal pensiero corto di pochi (sempre con la regia di qualche furbacchione).

Passiamo a un’altra occupazione. Il Teatro Valle. Appena entrati, appeso alla ribalta un lenzuolo. Anche qui la scritta NO TAV. Deve trattarsi di pura e semplice solidarietà con i compagni occupanti, perché un nesso fra treni e spettacolo non ce lo vediamo davvero.

Teatro Valle occupato, dunque. Ci siamo affacciati varie volte. Abbiamo assistito alle solite esternazioni, talvolta vaneggianti, talvolta sensate, ma quasi sempre autoreferenziali. “I diritti della categoria, la tutela della categoria, il sostegno alla categoria…”, e poi, subito dopo: io, io, io… con battute e guittate pensate per chiamare la risata del pubblico.

Un tale Pippo Delbono c’è riuscito dando della buonanima ad Albertazzi, (ah, scusate, è ancora vivo?), altri hanno puntato su siparietti gridati, o patetici, o rancorosi, ma sempre demagogici. E’ stato naturalmente letto il messaggio di un collega impossibilitato a intervenire avendo ospite a casa Mr. Parkinson, e ci si è serviti con abbondanza di altri patetismi da manuale.

In mezzo a questa fiera dell’ego ci ha colpiti, zittito da più parti, ma a nostro parere giusto, l’intervento di una signora, presentatasi come ex segretaria dell’ex ETI che in mezzo ai dissensi ha detto una cosa sensata. “Il teatro Valle, come ogni altra istituzione di spettacolo non deve essere gestito da un artista, ma da un RAGIONIERE”, proprio così, lo ha detto in maiuscolo. “Poi, la scelta del repertorio, le regie, ecc., lasciamole agli artisti, d’accordo, ma la gestione pratica, al ragioniere”.

Dobbiamo dichiarare che dopo varie serate in cui abbiamo ascoltato interventi e provocazioni, giudicato esibizioni di ogni genere e livello, registrato l’assenza di proposte pratiche e realizzabili, controbilanciate da descrizioni di sogni vaghi e utopistici, cercato di capire e digerire quello che ci offriva il palcoscenico del teatro occupato, insomma assaggiato e riassaggiato la stessa zuppa, siamo arrivati alla seguente conclusione:

I problemi del teatro italiano sono da imputare senz’altro alla cronica e oggi ancora più grave mancanza di soldi e sostegno politico, ma, diciamocelo con sincerità, c’è un altro ingrediente che scarseggia: è l’elemento umano (intendiamo autori, attori, registi, scenografi, ecc.). Quelli bravi, naturalmente, perché gli altri abbondano.

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L’archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi