Occupazione in crisi, il sindacato ha le sue responsabilità
07 Dicembre 2012
Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati, sicuramente preoccupanti, sulla disoccupazione nel nostro paese. Particolarmente allarmante è l’analisi che emerge rispetto ai giovani. In questo caso, tuttavia, sarebbe probabilmente più corretto parlare, molto spesso, di inoccupazione o di inattività. La vera emergenza giovanile è rappresentata, infatti, dai NEET cioè quei ragazzi esclusi sia dai circuiti dell’istruzione e della formazione professionale oltre che dal mercato del lavoro.
Questi giovani sono, quindi, di volta in volta appellati come bamboccioni o “choosy” o vengono bacchettati ricordando loro come il posto fisso sia noioso e che aspirarci sia un errore. La soluzione prospettata sempre, in questi casi, è quella di dare priorità alla necessità di acquisire una professionalità sufficiente per sentirsi sicuri “pur nella flessibilità”. Una valutazione certamente condivisibile, specialmente in un mondo sempre più integrato e globalizzato, ma che si scontra, ahimè, con alcune scomode verità che caratterizzano il nostro paese.
L’Italia da troppi anni, anche prima della crisi, cresce a tassi troppo bassi per poter garantire la creazione di nuova occupazione di qualità per le giovani generazioni. Il nostro sistema di istruzione e formazione, autoreferenziale, è incapace di intercettare i bisogni emergenti del tessuto produttivo e, allo stesso tempo, il nostro sistema di impresa, caratterizzato da piccole e piccolissime aziende, non scommette abbastanza sulla valorizzazione del proprio capitale umano.
In questo quadro anche le stesse organizzazioni sindacali hanno le loro responsabilità. Ad oltre un decennio dall’inizio del processo di flessibilizzazione (o precarizzazione, dipende dalle prospettive), infatti, sembra che il sindacato non abbia ancora compreso appieno come relazionarsi con questa nuova dimensione del lavoro. Le parti sociali offrono, quindi, nella maggioranza dei casi piattaforme rivendicative e modelli di rappresentanza inadeguati a rappresentare i cd. lavoratori “non standard”. Le stesse scelte adottate dal Governo con l’approvazione della legge di riforma del mercato del lavoro (in particolare con riferimento ai contratti a progetto ed il tempo determinato) rischiano di creare per i giovani, ma non solo, che devono inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro, criticità maggiori di quelle che si volevano contrastare.
Tuttavia l’ elemento che colpisce maggiormente quando si parla di precarietà è constatare come le città, i servizi, la nostra quotidianità sia costruita, strutturalmente, sul presupposto del “posto fisso” e di un modello di organizzazione del lavoro tradizionale e ormai, per molti aspetti, superato nei fatti dalla realtà.
Si pensi, in particolare, al tema della casa che rimane per molti un bene “rifugio”. Per i lavoratori privi di un contratto a tempo indeterminato e pieno (magari pubblico) è praticamente impossibile accedere ad un mutuo, il mercato degli affitti soffre e, salvo alcune realtà virtuose prevalentemente del centro nord, non si mettono in campo serie ed innovative politiche di “housing sociale”. Nella stessa logica, si muovono i servizi, specialmente nelle realtà della provincia italiana. Viene, banalmente, in mente l’organizzazione delle scuole, dei servizi di trasporto pubblico locale ma anche di molte attività economiche (a titolo esemplificativo: i negozi di alimentari).
Se l’Italia decide di voler tornare a scommettere sul futuro e si propone di diventare una società più flessibile, dinamica, globale, più giusta e più adeguata ad affrontare le sfide del terzo millennio, quindi, non basta eliminare il mito del “posto fisso”, ma è necessario rimboccarsi le maniche per costruire tutti insieme (politica, istituzioni, parti sociali, imprese, etc) quelle precondizioni di base che lo rendano possibile.
Tratto da amicimarcobiagi