Occupied City, dimenticare il male
27 Dicembre 2024
La prima impressione guardando Occupied City, il documentario di Steve McQueen sullo sterminio nazista ad Amsterdam, è che il regista britannico abbia ceduto a un’analogia un po’ scontata: il nazismo come il Covid, un virus che si insinua nel tessuto sociale e lo contamina. Questa lettura, insieme alla scelta di alternare per quattro ore immagini del presente a ricordi del passato, potrebbe spiegare l’accoglienza tiepida riservata al film, ispirato al bel libro Atlas of an Occupied City: Amsterdam 1940-1945 di Bianca Stigter, moglie di McQueen.
La voce dell’attrice Melanie Hyams scandisce, con una cadenza liturgica e implacabile, gli indirizzi degli onderduikers – case, strade e quartieri dove gli ebrei si nascondevano, venivano scoperti, arrestati e deportati. A queste parole McQueen contrappone le immagini di Amsterdam contemporanea: le strade vuote durante il lockdown, le proteste No-Vax, gli impeccabili interni borghesi, i giovani che fumano spinelli nel Red Light District.
Occupied City e la storia dell’Olocausto nei Paesi Bassi
Eppure, il film sembra suggerire qualcosa di più di quella abusata equiparazione. Forse McQueen vuole mostrare che, di fronte alla pandemia – tra anziani in coda per vaccinarsi e biciclette che tornano a sfrecciare giorno e notte – c’era qualcosa di comprensibile, affrontabile, mentre l’Olocausto fu una tragedia irripetibile nella sua crudeltà. Tant’è che le chiacchiere sul “nuovo totalitarismo sanitario” assumono il giusto peso: un’esagerazione inutile di fronte all’orrore degli anni Quaranta, che riemerge dai luoghi della città.
In Olanda, le scuse ufficiali per la Shoah sono arrivate tardi. Prima si sono scusati i reali, che trovarono riparo nel Regno Unito durante l’occupazione, poi nel 2020 il premier Mark Rutte ha detto: «Con gli ultimi sopravvissuti ancora tra noi, mi scuso a nome di questo governo per le azioni del governo dell’epoca». Nella prima metà degli anni Quaranta, i nazisti, con la complicità del locale partito fascista, spazzarono via tre quarti degli ebrei olandesi, non solo Anna Frank.
Un documentario sulla memoria corta dell’Europa
Una parola risuona spesso nel documentario: demolito. Alcuni edifici protagonisti della carneficina furono abbattuti e ricostruiti per diverse ragioni dopo la guerra, portandosi via storie, ricordi e memorie dell’occupazione. McQueen annota tutto, quando e dove. E non risparmia nulla: le delatrici, le ambiguità del Consiglio ebraico, i “giusti tra le nazioni” che approfittarono della situazione per fini tutt’altro che nobili.
Alla fine, Occupied City ci parla della volontà umana, troppo umana, di dimenticare il male. In Europa si fa sempre più fatica a ricordare cosa avvenne durante l’Olocausto. Come nei pogrom del passato, la “caccia agli ebrei” pianificata nei minimi dettagli su whatsapp il mese scorso ad Amsterdam, durante la visita di una squadra di calcio israeliana, viene derubricata a un “se la sono cercata”. “Una provocazione” che poi però si è rivelata inventata.
Tutto scivola via nella memoria, compresa la pandemia, le chiusure, i vecchi che morivano uno dopo l’altro, quel sottile timore che il mondo fosse cambiato per sempre. Così McQueen usa il presente come uno specchio deformato del passato, per chiederci quanto siamo disposti a rimuovere, e quanto, in fondo, restiamo fragili.