Oggi come ieri, i sindacati sono in affanno dappertutto tranne che in Italia

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Oggi come ieri, i sindacati sono in affanno dappertutto tranne che in Italia

29 Giugno 2009

In un saggio (La rappresentatività dei sindacati ieri e oggi, pubblicato sulla rivista "Formazione e Lavoro" dell’Enaip, il patronato delle Acli), Paolo Feltrin traccia un profilo molto interessante delle trasformazioni intervenute all’interno delle principali organizzazioni dei lavoratori italiane negli ultimi decenni e nel contesto e in corrispondenza dei cambiamenti dell’economia, del mercato del lavoro e della società nel suo insieme. 

Il parametro scelto da Feltrin si basa sugli iscritti (che è quello più corretto, essendo lo stesso indicato dal legislatore costituzionale nell’articolo 39 della Carta). Diversamente dai sindacati di altri Paesi (che hanno subìto un crollo vertiginoso delle iscrizioni) da noi Cgil, Cisl e Uil hanno visto aumentare, nel complesso, il numero degli iscritti del 32% nel corso degli ultimi venti anni, passando da quasi 9 milioni nel 1986 a poco meno di 12 milioni nel 2007.

Il principale contributo alla crescita è venuto dai pensionati che sono aumentati ininterrottamente fino al 2004, quando si è verificata una battuta d’arresto rispetto ai trend molto sostenuti degli anni precedenti. A fine periodo i pensionati iscritti alle loro federazioni sono quasi il doppio di quelli rilevati a metà degli anni ’80. Organizzare i pensionati (soprattutto nei decenni in cui esplodeva il fenomeno dei pensionamenti anticipati di anzianità) è stata una felice intuizione delle confederazioni italiane che, in questo campo, vantano un primato all’interno delle organizzazioni europee ed internazionali, restie per molti anni a porsi il problema degli ex lavoratori. All’estero, infatti, laddove si era provveduto ad organizzare i pensionati lo si era fatto come appendice ininfluente delle categorie di appartenenza, al solo scopo di aumentare la loro forza organizzativa nei congressi delle istanze confederali.

La novità introdotta dai sindacati italiani è stata quella di raccogliere i pensionati in una sola federazione come se fossero una categoria, creando così delle realtà aperte ad una grande espansione (visto che in Italia i pensionati sono 16,5 milioni) in nome di obiettivi rivendicativi specifici. Diversa, nel nostro Paese, è stata la traiettoria dei lavoratori in attività, caratterizzata dai trend di tre fasi ben distinte: di sostanziale stabilità fino al 1992; di calo marcato fino al 1998; di ripresa dalla fine degli anni ’90, quando si stabilizza una sostanziale parità – scrive Feltrin – tra attivi e pensionati sia pure con differenze tra le organizzazioni: nella Cgil i pensionati rappresentano dal 1993 la componente maggioritaria; nella Cisl il sorpasso è avvenuto a partire dal 1998; la Uil dichiara che, tra i suoi iscritti, prevalgono ancora i lavoratori attivi. Il cambio di passo a partire dal 1998 è dovuto soprattutto alla crescita delle iscrizioni dei dipendenti dei servizi, segnatamente del pubblico impiego e del commercio, in quanto la residua parte del terziario privato presenta andamenti stazionari. Anche nell’industria – che dopo una fase in decrescita tra il 1993 e il 1998, ha evidenziato segnali di ripresa (senza che fossero compensate le perdite) – si notano due diverse dinamiche: sono i calo la manifattura e l’agroindustria, in crescita le costruzioni. Vanno altresì ricordati i 600mila lavoratori stranieri iscritti.

E’ invece impressionante – commenta Feltrin – la netta diminuzione delle adesioni nel settore privato nel suo complesso. Dal 1986 ad oggi sono scomparsi circa un milione di associati nonostante che i dipendenti siano aumentati di oltre due milioni.

Sono il pubblico impiego e i pensionati (questi ultimi in misura di oltre sei milioni di iscritti) la nuova spina dorsale di Cgil, Cisl e Uil. E, in generale, la maggioranza degli iscritti alle confederazioni storiche si trova nei comparti che, in un modo o nell’altro, dipendono dai flussi di spesa pubblica.

Un altro dei motivi che hanno consentito la tenuta delle organizzazioni italiane (con un tasso di sindacalizzazione record, superiore al 30%) sta in una diffusa rete di servizi di assistenza e di consulenza fiscale e previdenziale in tutto o in parte finanziata dallo Stato. Se a questi dati aggiungiamo il consistente bagaglio dei diritti sindacali, riconosciuti dalle leggi e dai contratti, che permette di svolgere attività sindacale pressoché a totale carico dello Stato o dei datori di lavoro, comprendiamo ancora meglio – al di là delle considerazioni di Paolo Feltrin – le ragioni per le quali, da noi, il sindacalismo storico resiste, essendo ormai un pezzo dell’establishment istituzionale. La considerazione vale, al massimo grado per Cgil, Cisl e Uil, a cui si è associata l’Ugl. Ma anche il sindacalismo più radicale e di base non esita – legittimamente – ad avvalersi delle prerogative (distacchi, permessi, ritenute in busta paga, ecc.) riconosciute da quelle istituzioni pubbliche e private che dichiara di voler combattere. E’ comprensibile: per tutti, la regola aurea è quella del primum vivere……