Ogni nuovo libro di Juli Zeh è un omaggio al disincanto di Musil

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Ogni nuovo libro di Juli Zeh è un omaggio al disincanto di Musil

24 Gennaio 2010

Juli Zeh, trentacinquenne tedesca di Bonn, è laureata in giurisprudenza ed il suo nome è spesso presente nei dibattiti pubblici tedeschi laddove sia a tema il rapporto tra libertà e autorità: nei mesi scorsi ha fatto discutere il suo ultimo Angriff auf die Freiheit ("Attacco alla libertà", Hanser 2009), scritto a quattro mani con lo scrittore bulgaro-tedesco Ilija Trojanow e dedicato ai tentativi, presenti anche in Germania, di limitare la “rete”. Gli stessi suoi romanzi pescano sempre in quei territori di confine tra crimine, responsabilità individuale e giustizia.

Dopo Gioco da ragazzi (Fazi 2007), “una storia spietata sull’adolescenza” del nostro tempo che per qualità stilistica nulla ha a che spartire con i nostri Moccia et similia, la scrittrice torna nelle librerie italiane con Un semplice caso crudele (traduzione di Roberta Gado Wiener, Baldini & Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 327). Ogni suo libro rappresenta un omaggio al suo grande maestro, Robert Musil. Anche qui emerge con vigore il narrare lucido ed ironico dell’austriaco e per ciascun personaggio la Zeh sembra voler ritagliare un abito degno delle migliori pagine de L’uomo senza qualità, la grande e incompiuta opera musiliana.

Così Oskar e Sebastian, protagonisti insieme al commissario Schilf di questo romanzo, due geni della fisica, che dopo un comune percorso di studio ed un amore omosessuale vedono le loro vie separarsi, nella vita di tutti i giorni come nel contesto della ricerca scientifica: Sebastian si sposa, diventa padre, fa il professore a Friburgo ed elabora “l’interpretazione a molti mondi”, secondo la quale, accanto a quello che gli uomini percepiscono, esistono dei mondi paralleli (si ricordi l’«Azione parallela», anch’essa di musiliana memoria). “Tutto il possibile accade”, questa è la formula che Sebastian usa in un articolo scritto per una rivista scientifica a larga diffusione. Oskar invece, diventato una celebrità per le sue riflessioni sull’essenza del tempo, lavora per saldare la meccanica quantistica alla teoria della relatività generale.

I dialoghi tra i due sono così frequenti, e in qualche caso così stucchevoli, da rendere assolutamente irrilevante e comunque privo di attrattiva l’intreccio criminale (il presunto rapimento di Liam, figlio di Sebastian, l’omicidio di Dattelberg). Al centro del romanzo non ci sono gli eventi, piuttosto le riflessioni dei due fisici sul tempo e sullo spazio. Gli stessi personaggi finiscono col risultare scialbi e privi di vita, dunque semplici portatori di tesi. Con un’eccezione: Schilf. Il commissario, che per ironia e portamento ricorda il tenente Colombo, ha i giorni contati. Un grumo di sangue delle dimensioni di un “uovo d’uccello” abita la sua testa. L’accadere prossimo della morte ha “costretto” la Zeh a pensare un personaggio totalmente immerso nel “qui e ora” e insieme già “altrove”.

Nella descrizione dell’elementarità delle esperienze sensoriali di Schilf alla tedesca riesce finalmente una scrittura più sincera e coinvolgente: “Un aroma di tisana al tiglio che fa affiorare immagini inabissate nell’oblio. Questo, pensa Schilf, è il mio nuovo passato. Mi ricorderò di questo quando me ne andrò. Un uomo, una donna, un ragazzino eccitato, i visi rivolti al cosmo. Forse una carezza alla schiena, dita intrecciate, la testa di un bambino che combacia perfettamente con la mano.” Non a caso è lo stesso commissario che, osservando la realtà (o comunque ciò che si sottopone alla sua vista), pone il tema della felicità umana: “La casa, profumata dal glicine, è graziosa a vedersi. Ma assomiglia a una scatola vuota. Tanta bellezza reclama felicità, e le persone che ci abitano non sono più felici”.  

Qui, come nei precedenti romanzi della Zeh, la stessa intitolazione dei capitoli in forma di didascalie rappresenta un ulteriore concessione all’opera di Musil. D’altra parte, l’adesione alla “poetica” dell’austriaco è incondizionata. Il talento della scrittrice prende forma in particolare grazie al suo pensare per immagini. Chi narra “vede” e con l’uso assiduo, ossessivo talvolta, di metafore, del “come se”, la Zeh svela imprevedibili affinità tra le cose, tra i personaggi. Lungi dall’essere sminuita, ciò che siamo soliti chiamare “realtà” assume così ancor più significato e l’uomo è costretto a sentirsene un po’ meno “padrone”. E’ ancora attraverso Schilf che il disincanto musiliano della Zeh prende la forma di un’ennesima immagine metaforica: “Se uno si atteggia a capo, la realtà si punta le grasse braccia sui fianchi e gli ride in faccia”.