Olmert e Abu Mazen vogliono la pace, Hamas la guerra
10 Ottobre 2007
Una pace definitiva in Medio Oriente: sembra essere questo il sogno
ricorrente di ogni presidente degli Stati Uniti, giunto alle soglie di fine
mandato. Contribuire alla creazione di due stati, Israele e la Palestina,
capaci di convivere civilmente l’uno accanto all’altro: un colpo di teatro che
assicurerebbe un posto nella storia. L’ultimo a provarci è stato Bill Clinton,
e per poco non ci è riuscito: ma a Camp David, nel luglio 2000, Arafat
rifiutò all’ultimo le proposte di Barak. Risultato: niente di fatto.
Oggi, sette anni dopo, è il turno di George W. Bush (con il fondamentale
contributo di Condoleezza Rice, alla quale il presidente sembra aver affidato
la pratica israelo-palestinese). Da mesi si parla infatti di una nuova
conferenza di pace sul Medio Oriente, organizzata dagli Stati Uniti, che
dovrebbe tenersi a fine novembre ad Annapolis. Oltre a Bush, il premier
israeliano Olmert e il leader palestinese Abu Mazen, dovrebbero partecipare
anche alcuni stati arabi. E secondo molti osservatori, il successo (o
l’insuccesso) dell’iniziativa dipenderà proprio dal numero dei “vicini di
casa” che accetteranno l’invito degli americani.
Una conferenza di pace non è mai frutto di improvvisazione. Nonostante la
scarsa copertura mediatica dedicata ai preparativi del vertice, le diplomazie
dei principali protagonisti sono al lavoro da tempo. Obiettivo: evitare un
ulteriore fallimento, da sommare ai molti che hanno sinora contraddistinto la
tormentata storia del conflitto israelo-palestinese. Per quanto riguarda Bush,
poi, un “nulla di fatto” non aiuterebbe certo a risollevare il suo
consenso presso il popolo americano. Gli ostacoli da aggirare, come sempre,
sono molti: a partire da Hamas, contraria a qualsiasi concessione allo Stato
ebraico.
La strada che porta ad Annapolis è contrassegnata da incontri preliminari
tra delegati israeliani e palestinesi. Il senso di questi incontri, ritenuti
fondamentali da ambo le parti, è quello di giungere negli Stati Uniti con le
idee chiare e possibilmente una bozza condivisa, senza la quale – stando a
quanto affermato da Ahmed Qureia, leader della delegazione palestinese –
l’incontro potrebbe anche saltare. Non a caso George W. Bush, che ha ostentato ottimismo
in vista dell’incontro americano, ha lasciato intuire che la data della
conferenza verrà decisa in base ai progressi che emergeranno dagli incontri tra
i due contendenti.
A dare il via alle discussioni, un vertice privato tra Olmert e Abu Mazen,
avvenuto il 3 ottobre. Ben
poco è trapelato, ma secondo il quotidiano israeliano “Haaretz” Abu
Mazen avrebbe presentato ad Olmert le questioni di primaria importanza per il
popolo palestinese. Tra i punti esposti da Abbas comparirebbero la richiesta di
un immediato congelamento degli insediamenti, un ritorno dei confini a quelli
del 1967, la creazione di una territorio sovranazionale per permettere il
passaggio tra Gaza e il West Bank, la sovranità su Gerusalemme e un indennizzo
monetario per le sofferenze provocate ai palestinesi. Richieste pesanti, certo:
come tutte le condizioni iniziali, inevitabilmente soggette a lunghi negoziati.
Dall’incontro tra i due leader (il sesto nel corso del 2007) sono emerse anche
alcune informazioni sulla futura conferenza: Abu Mazen si aspetta la
partecipazione di 36 paesi (tra cui dodici stati arabi, tre islamici, i membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e i paesi del G8).
Olmert ha invece ricordato che la conferenza di pace negli Stati Uniti
“non sostituisce negoziati diretti fra israeliani e palestinesi”.
Lunedì 8 ottobre si è tenuto invece il primo incontro ufficiale tra le due
delegazioni diplomatiche. Shimon Peres, presidente d’Israele, ha parlato alla
Knesset: “Non bisogna dare modo di pensare che a Israele non interessi il
raggiungimento della pace”, mentre Olmert ha rassicurato sulla credibilità
dell’attuale leadership palestinese – “Non sono terroristi”, ha
affermato – e sulla comune volontà di raggiungere un accordo condiviso. Pressochè
nulla è trapelato sui contenuti dell’incontro: un membro del governo israeliano
ha voluto far sapere che “questi incontri non sono segreti, ma l’idea è
quella di lavorare intensamente e non sotto gli occhi dei media”, per poi
mettere in guardia da tutte le indiscrezioni infondate che riempiranno nelle
prossime settimane le pagine dei giornali mondiali. Lavoro duro e nessuna dichiarazione:
questo sembra essere il leitmotiv che accompagnerà le trattative dei prossimi
giorni. Una riservatezza, visto il contesto nel quale ci si trova a dialogare,
che suona francamente indispensabile.
Una certezza, però, c’è: al centro del tavolo ci sarà il futuro di
Gerusalemme. Abu Mazen ha dichiarato senza mezzi termini che “Gerusalemme
è sempre stata nei nostri cuori, e la speranza che ci ha accompagnato fino a
qui”, per poi ribadire che “non può esserci una Palestina indipendente
senza Gerusalemme capitale. E’
una considerazione che terremo ben presente nei difficili giorni a
venire”. Anche il vicepremier israeliano Haimi Ramon ha sottolineato
l’importanza di Gerusalemme: “Chiunque pensi che l’oggetto delle
discussioni sarà limitato alla struttura delle istituzioni palestinesi è fuori
strada. Israele ha interesse che vengano riconosciuti tutti i quartieri ebraici
di Gerusalemme, e consegnati quelli arabi ai palestinesi”. L’idea del
vicepremier, sulla carta, è semplice ed “in linea con i principi di
Kadima”: “Ci saranno scambi territoriali. A Gerusalemme quello che è
arabo sarà palestinese e quello che è ebreo sarà israeliano”. Secondo il
quotidiano londinese “Times”, le due parti starebbero pensando di
mettere la Città Vecchia – la zona più santa e maggiormente contesa della città
– nelle mani di un’amministrazione speciale vicina al governo giordano.
Ed è ancora la “questione Gerusalemme” a infuocare i maggiori oppositori
alle trattative: entrambe le leadership devono infatti confrontarsi con
“nemici interni”. Alla
Knesset, l’opposizione guidata dal leader del Likud Netanyahu ha attaccato la
condotta di Olmert e di Kadima: la strategia del governo, secondo il Likud,
porterebbe ad una presenza di terroristi iraniani a Gerusalemme e in Israele.
“Il ritiro unilaterale dal Libano ha creato un avamposto iraniano al nord,
dal quale Israele è stato attaccato, e il ritiro unilaterale da Gaza ha creato
un secondo avamposto iraniano, Hamastan. Adesso il governo sta pianificando un
terzo ritiro, dalla Giudea e dalla Samaria, che creerà una terza base
iraniana”, ha riflettuto Netanyahu, che ha concluso il suo discorso al
parlamento mettendo in guardia da Hamas: “Dare ad Hamas metà di Gerusalemme
renderebbe invivibile il resto della città”. Nel corso di una riunione di
governo tenutasi domenica, anche Tzipi Livni ed altri ministri hanno messo in
guardia Olmert dai rischi di troppe concessioni “solo per arrivare al
summit con in mano un pezzo di carta”.
Sull’altra sponda, oppositori di Abu Mazen sono evidentemente i militanti
di Hamas: di trattative di pace, dopo aver preso il controllo totale della
Striscia di Gaza ai danni di Fatah, non vogliono proprio sentir parlare. Il
portavoce del movimento islamico ha dichiarato a “France Press” di
voler organizzare una contro-conferenza a Damasco, prevista per il 7 novembre e
immediatamente bollata come “illegale” da Fatah. Il primo ministro di
Hamas, Ismail Haniyeh, si sta inoltre prodigando per boicottare il vertice
ufficiale di Annapolis: per farlo, si è appellato direttamente agli stati arabi
– Egitto e Arabia Saudita su tutti – pregandoli di “rivedere la decisione
di prendere parte alla conferenza”. Tempi duri all’orizzonte.