Olmert e Haniyeh a confronto sulla Guerra dei Sei Giorni
06 Giugno 2007
Il “Guardian” in occasione dei 40 anni dalla Guerra dei Sei Giorni, ha messo a confronto i leader di Palestina ed Israele chiedendo loro di scrivere un bilancio riassuntivo delle loro rispettive posizioni. Inoltre ad Haniyeh ed Olmert è stato chiesto un parere in merito alle strategie da adottare per una possibile soluzione del conflitto. Ecco di seguito un riassunto schematico dei loro interventi.
Ismail Haniyeh
“Quando i leader israeliani hanno iniziato la loro guerra espansionistica nel Giugno del 1967, non sono stati in grado di prevedere che le conseguenze di tale gesto li avrebbero perseguitati ancora oggi.” è questo l’incipit scelto dal Primo Ministro palestinese, Ismail Haniyeh, per il suo articolo sul Guardian online. La risoluzione del conflitto prevede molto di più della superiorità militare e, in generale, il mondo non ha prestato sufficiente attenzione a quella che lui chiama l’espropriazione delle terre palestinesi.
Con l’inizio dell’Intifada nel 1987, invece, l’attenzione del “villaggio globale” si è dovuta per forza di cose spostare verso le azioni di quella nuova generazione di palestinesi “assetati di libertà e pace” e animati da un bisogno profondo di riportare la dignità alla loro terra. La mia gente rimarrà saldamente ancorata al suo territorio, a qualsiasi costo, e perseguirà il suo diritto di resistere all’occupazione. Sono questi i concetti che Haniyeh tiene a precisare come preambolo al suo discorso. Il Primo Ministro palestinese chiama poi in causa le risoluzioni Onu n.2955 e n.3034 che affermano il diritto inalienabile di tutti i popoli all’autodeterminazione. Poi però giudica come un errore fatale degli israeliani, “quello di sottostimare la risolutezza dei palestinesi.” Haniyeh inizia poi a “dare i numeri del conflitto”: 650 palestinesi morti nel 2006, 650.000 detenuti e circa 5 milioni di profughi in giro per il mondo. Con la sigla degli accordi di Oslo nel 1993 le cose sembravano iniziare a mettersi meglio, invece secondo il leader palestinese, “Israele ha continuato a costruire gli insediamenti mentre al mondo veniva raccontato che stava semplicemente difendendo il suo diritto ad esistere”, al contrario semmai è stato lo stesso Israele a mettere in pericolo l’esistenza della Palestina, chiosa lo stesso Haniyeh, che continua affermando: “In risposta a questa minaccia le più potenti democrazie del mondo hanno imposto un embargo economico contro la mia gente.”
Il politico palestinese prosegue poi ponendo una condizione dura: “Non può esserci via d’uscita da questa impasse se non verranno imposte sanzioni ai nostri dirimpettai e Israele non restituirà le centinaia di milioni di dollari che ci ha sequestrato.” Nella Guerra dei Sei Giorni, continua Haniyeh, “Israele avrà anche conquistato la nostra terra, ma non la nostra gente,” e quella stessa guerra ha influito pesantemente nel processo di destabilizzazione del Medio Oriente tutto. Per cambiare questo stato di cose l’Occidente deve cominciare a discutere con il governo di Unità Nazionale palestinese, che persegue l’obbiettivo di instaurare uno stato indipendente il quale comprenda tutti territori occupati da Israele nel 1967, lo smantellamento di tutti gli insediamenti nella Cisgiordania, il rilascio degli 11.000 detenuti palestinesi e il riconoscimento del diritto dei profughi a ritornare nelle loro abitazioni in Palestina. “Se Israele vuole la pace seriamente deve riconoscere i diritti basilari della nostra gente.” Quindi, la chiosa di Haniyeh è la seguente: “La guerra del 1967 rimane un capitolo aperto e niente fermerà la nostra lotta per la libertà e per lo stato sovrano della Palestina, con Gerusalemme come capitale.”
Ehud Olmert
Secondo il Primo Ministro israeliano, Ehud Olmert, la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni ha dimostrato al mondo intero che Israele non sarebbe stata cancellata dalle mappe così facilmente. Gli israeliani hanno dovuto combattere una guerra che non volevano per difendere la loro stessa esistenza, anche se oggi ci sono ancora capi politici che inneggiano alla distruzione del paese in questione. “I nostri oppositori politici si schierano tutti contro l’occupazione come se noi fossimo la causa principale del conflitto…Pensano che la guerra cesserebbe se solo noi abbandonassimo i territori occupati…Minacciano una sorta di isolamento internazionale nel caso in cui questo non accadesse,” scrive Olmert.
Il fatto è che, secondo lo stesso politico israeliano, “il conflitto non è così semplice e le risposte non sono così facili.” La storia insegna che nel corso degli ultimi 15 anni i governi israeliani che si sono succeduti hanno tentato in tutti i modi di instaurare un dialogo con i palestinesi, in modo da raggiungere un qualche tipo di accordo. A dimostrazione di ciò, nel 1990 Israele si è ritirata da tutte le città palestinesi della Cisgiordania, lasciandone la legislazione alle autorità del luogo. Non solo, meno di due anni fa Israele ha ritirato le sue truppe ed i civili da Gaza, senza richiedere condizioni di sorta. Inoltre il partito Kadima, (del quale lo stesso Olmert fa parte) che è andato al potere lo scorso anno, ha in agenda ulteriori ritiri. In risposta a tutto ciò, precisa il Primo Ministro israeliano, “quello che i palestinesi hanno offerto è stato il rifiuto di porre un termine agli atti di violenza contro i nostri cittadini.” Ancora, secondo Olmert, la violenza in questione non è una conseguenza della conquista palestinese della West Bank e della Striscia di Gaza, le radici del nazionalismo palestinese non sarebbero così poco profonde. Si precisa che: “Sin dalla nascita del movimento sionista più di cento anni fa, gli arabi si sono spesso opposti violentemente alle nostre dichiarazioni d’indipendenza nella nostra patria storica. Questo conflitto non è territoriale, è nazionale.”
L’unico modo di risolvere la questione, secondo il Primo Ministro israeliano, consiste nello stabilire confini geografici precisi per i popoli presenti nella regione [mediorientale ndr]. D’altronde era su queste basi che i trattati (pluridecennali) di pace con Egitto e Giordania sono andati in porto, ed è sulla stessa base che il governo di Tel Aviv sarà in grado di stabilire la pace con i palestinesi: “due popoli che vivono in due stati.” Per quanto riguarda Gerusalemme, la capitale eterna degli ebrei d’Israele, Olmert si augura che essa possa rappresentare un luogo d’unione delle molteplici identità mediorientali e non una bandiera per una nazionalità o una religione. Sono questi principi che l’attuale Primo Ministro israeliano ha implementato durante gli anni in cui era sindaco di Gerusalemme.
Fatte queste premesse, rimane chiaro che il governo israeliano non permetterà ad altri di perpetrare violenze verso la sua gente che verrà protetta in tutti i modi. Olmert riconosce poi che il conflitto non potrà mai essere risolto soltanto con la violenza e i suoi incontri con Mahmoud Abbas continueranno ancora. In quelle occasioni ad Abu Mazen verrà richiesto di fermare la violenza a Gaza e, più in generale, di trovare una soluzione al vuoto legislativo e all’estremismo dilagante.
Olmert si dice poi pronto a discutere con gli arabi le iniziative di pace in maniera sincera ed aperta: “Lavorando con i nostri partner giordani ed egiziani o con chiunque sia disponibile al dialogo.” Lo scopo è quello di perseguire una pace onnicomprensiva con energia e lungimiranza. Solo che tutti i possibili forum di discussione non dovranno in alcun modo assumere la forma di un ultimatum, in pratica Israele non ci sta a subire ricatti di nessun genere, ma sarebbe comunque pronto a “fare concessioni dolorose” in cambio di una pace duratura, in modo che tutte le persone del Medio Oriente possano vivere con dignità e pacificamente. “Ma gli israeliani non possono fare la pace da soli, per quanto siano forti e pieni di risorse,” conclude Olmert.