“Ora più soli che mai”. Il grido d’aiuto dei terremotati lasciati nella “zona d’ombra”

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“Ora più soli che mai”. Il grido d’aiuto dei terremotati lasciati nella “zona d’ombra”

22 Maggio 2019

Chi può dire di conoscere la fragilità come i terremotati che si sono ritrovati in piazza Montecitorio lo scorso 18 maggio? È ancora buona la canna di Blaise Pascal. Quella frangibile, che ondeggia su un movimento transitorio e rimbombante, ma continuando a pensare: “… perché egli (l’essere umano, ndr) sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla”. Figuriamoci un terremoto, che è solo uno “sputo metafisico”. Loro, i reduci dal disastro del 2016, sono più canna al vento di tutti noi. Sanno che una storia spezzata non prevede “passerelle” della politica e lo gridano. Raccontano di come sia in atto una sorta di emigrazione di massa da territori svuotati di calce e di vitalità. Non ci sono le scialuppe delle Ong e delle associazioni umanitarie in questa storia. Non c’è neppure un’ancora ideologica cui aggrapparsi, nessun leader istituzionale digiunante e niente appelli mediatici: “Non è con le chiacchiere, né con le conferenze stampa davanti a selve di microfoni, né con le promesse elettorali che si tirano su i muri delle case”.

Provate a dirlo meglio di così. Vorrebbero almeno captare qualche genere di volontà: “Ci hanno lasciato un po’ soli,” mi ha detto, sussurrando, un consacrato che opera lì, dove il concetto di abbandono travalica la teoria psicologica dell’attaccamento. È come una partita a scacchi interrotta da un amico che, dal basso, ha riversato tutta la sua rabbia sui pezzi, distruggendo la partita. Magari lo ha fatto per scherzo, ma il gioco è finito. E nessuno è ancora passato a riparare il danno. Jean Vanier se n’è andato pochi giorni fa, insegnandoci come amare voglia dire accettare la fragilità. L’ufficio accettazione, in questo caso, è sigillato dal menefreghismo: duecento persone sono ancora senza dimora fissa. I container, per carità, sono l’elegia dell’egualitarismo e sarebbero buoni per raccontare una distopia post-novecentesca, ma “Codice Genesi”, per fortuna, è solo un film.

Sei il protagonista di un romanzo interrotto da un fenomeno naturale con cui i letterati usano giocare a mezzo metafora, però tu ne porti i segni esistenziali e non ti va poi molto di filosofeggiare. Allora i manifesti, sperando di uscire da quella che il vescovo Domenico Pompili, parlando al Corriere.it dell’assenza di un “cambio di passo” da parte dei governanti, ha definito “zona d’ombra”. Sei un cittadino d’Italia come tutti gli altri, ma sei dovuto tornare indietro nel tempo, a quando “casa” faceva rima con privilegio. La memoria dell’uomo, forse, neppure ci arriva. Anzi, se scavi bene puoi pescare dal pensatoio: è uno scenario post – bellico, ma le bombe te le ha buttate addosso la matrigna di Leopardi. Ne hai sentito parlare a scuola, eri molto giovane, e magari ti è balzato in mente, mentre il portone di casa tua, quello che avevi sistemato poche ore prima, cadeva a peso morto. Come un giocatore che simula un fallo da rigore, ma rischiando di farsi male. Non ti va di ragionarci troppo, sono quisquiglie rispetto a tua moglie che cerca invano di ottenere un credito bancario, perché è cresciuta così, con l’idea che avrebbe potuto avere un diritto alla residenza, ma sei la canna di Blaise Pascal, pensi e non puoi farci niente. È Dio che ti ha creato così.

Che poi quale Dio avrebbe permesso tutto questo, ti chiedi. I quesiti religiosi, in questa fase della tua vita, non hanno alcuna utilità. Sarebbe meglio che il governo gialloverde trovasse il tempo di occuparsi delle linee di credito, quello sì. Ha ragione la donna che hai sposato a Norcia una decina d’anni fa, quando la tragedia non aveva modificato il tuo modo di stare al mondo.  É lei che te lo ripete ogni mattina. Per arrivare a Roma sono 171,6 km e questo è un canto di guerra che vale la pena intonare pure se la battaglia la percepisce solo il tuo popolo. Lo fai perché, dannazione, è giusto. Quell’espressione del vescovo ti calza a pennello: abiti davvero dove nessuno sembra vederti. Tiri fuori lo striscione e urli. Il tuo vaso giapponese, nel caso venisse rincollato, non avrebbe comunque lo stesso valore. É il 18 maggio del 2019, dal terremoto che ti ha reso parte di una storia spezzata sono passati anni, e tu stai pensando all’arte del Kintsugi. E magari ti senti in colpa, perché a te manca persino la colla. Ma guarda bene: non sei stato tu a chiudere l’edicola e non sei tu a doverla riaprire.