Ora sappiamo cos’era andato a fare in Pakistan il giovane Faisal Shahzad
06 Maggio 2010
di redazione
A quasi 24 ore dalla smentita dell’esercito pakistano sull’arresto di otto persone sospettate di essere implicate nel mancato attentato a Times Square, sempre da Islamabad è giunta la notizia che Faisal Shahzad non avrebbe agito da solo, e il governo si è detto pronto a offrire a Washington "tutto l’aiuto" necessario alle indagini, qualora gli venisse richiesto.
Shahzad non sarebbe un "lupo solitario" come avevano inizialmente fatto credere le autorità statunitensi, insomma. Nonostante si sia voluta far passare in sordina la vicenda, sminuendo la gravità dell’episodio – "gli Usa non si fanno intimidire, i newyorchesi ricordano al resto dell’America come non vivere nella paura" aveva dichiarato Barack Obama – con il passare delle ore e con l’infittirsi dei dettagli riguardo il mancato attentato di sabato scorso, l’allarmismo cresce.
Si fa sempre più insistente l’ipotesi di un legame tra l’attentatore – che lo scorso 3 febbraio era ritornato da un viaggio in Waziristan dove, a suo dire, si era recato per ricevere "l’addestramento" jihadista – e ben più ampie reti terroristiche, che siano al-Qaeda o Tehrik-i-Taliban, il gruppo che finora non sembrava in grado di inviare i suoi operativi fuori dal Pakistan per colpire sul suolo americano o dei Paesi alleati degli Usa. Le autorità americane sarebbero alla ricerca di altre tre persone legate ai fatti del Primo maggio e gli sforzi di polizia e intelligence si stanno concentrando proprio nelle direzione di individuare altri elementi d’indagine, quali registrazioni telefoniche, collegabili alla vicenda di sabato.
Non c’è dubbio che dopo l’11 Settembre la rete di Al Qaeda si sia indebolita e che i jihadisti, almeno in America, non siano più stati in grado di organizzare operazioni su vasta scala come quella che portò alla distruzione delle Torri Gemelle. Da qui la strategia di indottrinare, addestrare e infine utilizzare singoli individui, che paradossalmente appare meno controllabile e al tempo stesso pericolosa, proprio perché imprevedibile e difficilmente classificabile. Faisal Shahzad, d’altra parte, è un cittadino americano di origini pachistane, padre di due figli, diplomato in scienze informatiche e business administration, in due college privati di Washington e Bridgeport, Connecticut. E’ il figlio del vice maresciallo dell’Aviazione militare pachistana, Baharul Haq, fondatore della pattuglia acrobatica nazionale. Per di più, l’attentatore si è detto sin da subito disponibile a confessare, altro elemento spiazzante.
I media sostengono che Shahzad potrebbe presto apparire in un tribunale federale di New York, una eventualità che assai difficilmente avrebbe potuto realizzarsi nell’era Bush, quando i "nemici combattenti" dell’America non avevano diritto a un avvocato ma al contrario per loro si aprivano le porte del supercarcere militare di Guantanamo. La decisione di giudicare Shahzad con un processo civile, insieme al basso profilo usato dall’amministrazione nei momenti immediatamente successivi al fallito attacco di sabato scorso, hanno contribuito a rendere ancora più roventi le polemiche sul fronte sicurezza. Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che aveva ridimensionato la pericolosità dell’attacco, ha poi definito un "colpo di fortuna" il rocambolesco arresto di Shahzad.
Il capo della polizia di New York, Raymond Kelly, quasi contemporaneamente usava toni spavaldi per commentare l’operazione, condotta in sole 53 ore, dal momento dell’identificazione alle manette: "solo nei fumetti, ha aggiunto con un sorriso, un’indagine si conclude più in fretta". Il buon senso tuttavia dà ragione a Bloomberg: com’è possibile che una persona sospettata per un possibile attentato terroristico a New York possa riuscire a salire a bordo di un volo internazionale diretto a Dubai? La macchina della sicurezza americana ancora una volta si è inceppata, com’era successo lo scorso Natale, quando un aspirante kamikaze nigeriano era riuscito a salire su un volo diretto a Detroit, anche se il suo nome era sulla lista degli osservati speciali del dipartimento di Stato e dell’antiterrorismo. La stessa "no flight list" che conteneva anche il nome di Shahzad.
Il primo incidente di percorso nella caccia all’uomo scattata nella notte di sabato scorso è avvenuto in Connecticut, a Bridgeport, dove Shahzad viveva. L’Fbi lo ha raggiunto ma, per ragioni che fino a questo momento non sono state chiarite, lo ha perso di vista. Poiché nessuno sapeva dove fosse finito il sospetto, non è scattata alcuna particolare allerta al Jfk di New York dove Shahzad si è diretto in macchina, nella speranza di scappare negli Emirati Arabi Uniti e da lì raggiungere il Pakistan. Al Jfk la sicurezza ha fatto di nuovo cilecca. Shahzad ha comprato il suo biglietto in contanti poche ore prima del decollo senza che la Emirated Airlines riuscisse a identificarlo (un altro campanello d’allarme). Superato l’ostacolo al check-in, Shahzad, con il suo passaporto americano non ha avuto problemi a superare i controlli all’imbarco e si è accomodato a bordo. Il portellone era già chiuso quando finalmente è stato identificato grazie all’ultimo dei controlli di routine: l’elenco dei passeggeri a bordo è stato messo a confronto con la lista dei sospetti di terrorismo e il caso si è chiuso.
Il ministro della Giustizia americano Eric Holder ha detto di avere seguito personalmente la caccia all’uomo, comprese le ore in cui Shahzad era svanito nel nulla. Aggiunge di non avere mai temuto, neppure per un minuto, che l’uomo riuscisse a scappare. E’ la posizione ufficiale dell’Amministrazione e di molti esponenti del Congresso, ma Bloomberg non ne è persuaso. "E’ evidente che quest’uomo era su un aereo dove non sarebbe mai dovuto riuscire a salire". Susan Collins, una repubblicana moderata del Senato, gli dà ragione, si congratula per l’arresto ma parla di "incredibile gap nelle maglie della sicurezza". I repubblicani si muovono in punta di piedi nel criticare il governo democratico sul tema, delicatissimo, del terrorismo, ma dopo lo svarione di Natale, anche nel caso del fallito attentato di Times Square i motivi di imbarazzo ci sono.
di Alma Pantaleo