Ora tocca all’Europa pagare i debiti degli americani
12 Luglio 2008
Per quanto ingiusto possa sembrare, è l’Europa che sta pagando i conti degli americani, riguardo a questo, c’è poco da fare.
L’indebolimento del dollaro sta pian piano svalutando il costo economico dei nostri enormi debiti, per mezzo della crescente inflazione e – tramite l’accrescimento del nostro profilo commerciale – attraverso un cambiamento favorevole dei termini degli scambi. Le conseguenze di tutto ciò si avvertono su scala globale, ma è l’Europa a risentirne più di tutti e, al suo interno, l’Italia e la Francia sono le nazioni che più probabilmente subiranno l’impatto di queste fluttuazioni. La Germania seguirà a ruota.
In tutto questo, gli esportatori europei stanno assistendo alla diminuzione delle esportazioni verso il mercato americano, mentre il loro margine di profitto si assottiglia a sua volta. Questo accade indipendentemente dallo sconto applicato dai rivenditori, dalle svendite record dei grossisti, e da tutte le altre tattiche adoperate dai venditori quando si trovano a dover “spingere” i loro beni verso una base di clienti poco recettiva. Il calo della spesa per unità familiare in America, particolarmente preoccupante, diventa sempre più evidente. Il rimborso d’imposta sta esaurendo i suoi effetti mentre scrivo questo editoriale, laddove il rapido incremento dei prezzi della benzina e degli alimentari sta consumando i redditi disponibili in maniera più evidente del solito. Il risultato di tutto ciò è che, mentre la spesa si abbassa con sempre maggiore velocità ad ogni mese che passa, il debito delle carte di credito dei consumatori s’impenna. Esistono molti indicatori di stress finanziario della famiglie, ma questo è il più chiaro di tutti.
Per i commercianti europei, il problema risulta notevolmente complicato dalla rapida svalutazione del dollaro contro l’euro. In giro per l’Asia, invece, questo effetto viene subito solo parzialmente, visto che la maggior parte dei governi mantiene un’oscillazione “sporca” della propria moneta contro il dollaro, intervenendo così per ridurre la crescita naturale delle valute domestiche locali. Cose che non succedono con l’euro, non succedono con la BCE e certamente non sotto la politica monetaria del governatore Trichet. Lì da voi, state subendo l’impatto nudo e crudo, senza neanche alcun tipo d’ammortizzatore, almeno così sembra. Chiunque porti avanti un qualsiasi tipo d’attività sa di cosa stiamo parlando. Prima fai tutto ciò che è in tuo potere, tramite contromisure a breve termine. Come conseguenza iniziale, la differenza si vede nei profitti, poi nei profitti e nei volumi di vendita, dopo inizi a tagliare la produzione e, alla fine, sei costretto a riconsiderare il luogo in cui produci, con la conseguente perdita di posti di lavoro e crescita economica che attraversa la maggior parte dell’industria europea. Tale era il potere d’acquisto del portafoglio familiare americano fino a qualche tempo fa, e tali sono le conseguenze della sua diminuzione al momento attuale.
Chiedo umilmente perdono, da antipatico americano quale sono. Posso percepire la vostra sofferenza, ma non m’interessa. Porgo ancora le mie scuse. Secondo me, stiamo assistendo a nient’altro che al rovescio di una situazione che ha dominato la scena monetaria e valutaria per ben più di una decade, prima dell’ingresso in scena della grande svalutazione del dollaro. La nostra moneta era forte, anzi fortissima, e i nostri lavoratori si davano da fare in circostanze di mercato profondamente sfavorevoli, mentre il mondo intero viveva per la maggior parte grazie alle abitudini consumistiche (che ora stanno radicalmente cambiando) delle famiglie americane. Che peccato.
Avevamo bisogno di una pausa, e anche se questa pausa significa per noi impoverimento relativo (e lo è davvero) il risultato ad un certo punto sarà un’economia americana di rinnovata flessibilità e forza, corredata da una produttività crescente e una distribuzione della ricchezza relativamente migliorata (meno tendenziosa e impari). Personalmente credo che questo “ad un certo punto” inizierà a rivelarsi – lentamente – durante il secondo semestre del 2009, e si manifesterà con forza ben maggiore durante il 2010.
Intanto, il dibattito nei circoli politici ufficiali ha assunto un tono di moralità, come è giusto che sia. Chiunque veda qualcosa di losco in una svalutazione monetaria unilaterale non si sbaglia. Si tratta, infatti, della forma più comune di morosità finanziaria, anche se il creditore non ha nessun contratto e non potrà mai portare il prestatore davanti a una corte per far valere i suoi diritti. C’era una volta un certo John Moody, dietro alla famosa Moody’s Investors Service (l’agenzia di valutazione americana). Moody, alla fine del 1800, era dell’avviso che la svalutazione monetaria era in tutto e per tutto paragonabile, come morosità, al non pagamento degli interessi o del capitale. Quel principio fu poi ridimensionato, quando, circa quarant’anni dopo, gli analisti di Moody realizzarono che la svalutazione monetaria era quasi universalmente praticata, e visto che era comune come la gramigna, non si poteva paragonare ad un mancato pagamento. Perfino gli svizzeri sono stati casualmente e periodicamente colpevoli (e lo sono ancora oggi, anche se la loro situazione attrae comprensibilmente meno sguardi della nostra). Durante gli anni ottanta e i primi anni novanta, prima dell’entrata in vigore dell’euro, il deprezzamento artificiale della valuta era una manovra utilizzata da tutti i governi italiani, in maniera non dissimile dai condoni delle tasse che, nel corso degli anni, hanno salvato così tante finanziare.
Aspettarsi che un governo mantenga una moneta stabile e una forte politica antinflazionistica mentre la sua economia è nei guai, le imprese stanno fallendo e le famiglie si strozzano di debiti è quanto mai naive, oltre che romantico. Cionondimeno, quando la più importante moneta del mondo, per non parlare della sua valuta sotto forma di azioni e obbligazioni, attraversa questa fase, le conseguenze sono in genere disastrose. Le dimensioni del disastro dipendono essenzialmente dalla corretta interpretazione della situazione da parte degli analisti della Fed –la banca centrale americana.
Ecco su cosa questi analisti hanno scommesso: tra i prezzi al consumo della benzina nettamente più alti, il cibo più caro e i minori redditi, la domanda cadrà abbastanza rapidamente e così lontano da sgonfiare la pressione dei prezzi e da fare in modo che le paure di un’inflazione generalizzata – le aspettative d’inflazione – non prendano piede. A quel punto, continua la tesi, la Banca Centrale sarà in grado di alzare leggermente i tassi d’interesse nel contesto di un’economia molto lenta ma comunque positiva, sostenendo di conseguenza il dollaro e drenando lentamente gli eccessi di credito dal sistema bancario. Francamente, non si è ancora capito se questo possa accadere o meno. Ogni settimana che passa si porta dietro i segni di una spesa familiare sempre più in calo e di minori investimenti imprenditoriali, il punto è: tutto questo sta succedendo abbastanza in fretta? O magari troppo in fretta? La Fed sta provando a infilare il filo nella cruna dell’ago, senza avere un’idea abbastanza chiara di dove questa cruna possa trovarsi.
Se siete tra quelli dotati di una mente economica, durante le prossime settimane fate molta attenzione alle indicazioni dei dati finanziari. Si sta per scatenare un dramma rimasto in sospeso e non c’è niente di più elettrizzante. Incrociare le dita potrebbe aiutare, e magari sperare che Barack Obama – probabilmente il nostro futuro Presidente – si riveli tanto saggio quant’è giovane.
Traduzione Andrea Holzer