Ordine dei giornalisti, social, Fake news
11 Gennaio 2021
Da molti anni si è acceso il dibattito se l’Ordine dei Giornalisti sia ancora un’istituzione utile, in particolar modo nell’epoca dei nuovi media e dell’emergere di nuove modalità di fare informazione, come il cosiddetto citizen journalism ad esempio.
In realtà è vero l’esatto contrario: mai come in questa fase l’esistenza di un ente di diritto pubblico, che certifica chi è davvero giornalista e chi no e a quali regole debba attenersi l’operatore dell’informazione, sulla base di una deontologia professionale, è di estrema attualità.
E’ noto infatti che proprio la diffusione dell’uso del web e dei social network ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della rapida ed abnorme diffusione di fake news e di linguaggi sempre più aggressivi, per non parlare dell’uso diffamatorio che è possibile fare di queste piattaforme, fino ad odiose forme di cyber bullismo.
Dopo una prima fase di estrema tolleranza, le grandi corporation del web hanno cominciato a dotarsi di codici etici e di forme di regolamentazione dei contenuti pubblicabili. Il risultato è stato che oggi Facebook, Twitter, Instagram eccetera, esercitano forme di censura piuttosto brutali e immediate, che hanno colpito anche testate regolarmente registrate e non solo blog, mentre cominciano a nascere aziende che si occupano espressamente di Fact–checking e di qualità dei contenuti, spesso particolarmente attente al tipo di opinioni espresse negli articoli pubblicati in rete, che si arrogano il diritto di certificare come “affidabile” o meno un determinato sito.
Insomma si è passati da un estremo all’altro. La questione è tutt’altro che secondaria e ha risvolti che sconfinano in un ambito di diritto costituzionale, in particolare per quanto attiene alla libertà di espressione, sancita dall’Articolo 21 della nostra Carta fondamentale, e più in generale nell’ordinamento normativo che tutela la libertà di stampa nel nostro paese.
Assodato, infatti, che oramai i principali social network sono da considerare le più grandi piattaforme editoriali della storia dell’umanità (dotate peraltro di una pervasività nel mercato dell’informazione senza precedenti), è plausibile che esse siano regolate sulla base delle norme del diritto civile, quasi fossero normali imprese private? Ed è plausibile che l’ammissibilità o meno della pubblicazione di un dato contenuto sia sancita sulla base di un codice etico stabilito dal consiglio di amministrazione di una società privata, avente peraltro sede legale in un paese straniero? E’, infine, plausibile che la censura su un contenuto, magari prodotto dalla redazione di una testata regolarmente registrata, sia effettuata repentinamente e senza possibilità di contraddittorio, sulla base di quello stesso codice etico e di segnalazioni, più o meno anonime, di altri utenti, verificate da un algoritmo in grado di riconoscere certe parole (o immagini) considerate censurabili?
Per come funzionano (o dovrebbero funzionare) le cose nella Repubblica italiana ci sentiamo di sollevare seri dubbi in proposito.
Innanzitutto perché come abbiamo detto, ciò che attiene alla libertà di espressione è regolato dal nostro ordinamento costituzionale. Inoltre, l’eventuale azione censoria nei confronti di testate regolarmente registrate è prerogativa dei tribunali e semmai eventuali stigmatizzazioni o segnalazioni ricadono sull’AGCOM.
Ma è soprattutto sul versante della deontologia, dell’uso corretto del linguaggio, della veridicità delle notizie e delle fonti da cui esse sono tratte (e dunque della qualità del prodotto offerto al pubblico) che torna ad essere cruciale come non mai il ruolo dell’Ordine dei Giornalisti, al punto da poterlo ritenere un vero e proprio modello, a livello mondiale, di salvaguardia del pluralismo, della professionalità degli operatori dell’informazione e di tutela dell’opinione pubblica.
L’OdG è, infatti, non solo un ente di diritto pubblico di uno Stato democratico tenuto a sancire chi è effettivamente giornalista, ma anche un organismo professionale che si autoregolamenta sulla base di libere elezioni aperte a tutti i suoi iscritti. Le stesse regole deontologiche che i suoi iscritti sono tenuti ad osservare, sono stabilite dai suoi organismi di rappresentanza democraticamente formati e le eventuali sanzioni che da esse derivano, sono comminate in base a procedure tipiche dello Stato di Diritto che prevedono denunce firmate e motivate e regolari “giudizi” in cui la parte inquisita ha la possibilità di difendersi, eventualmente ricorrendo al consiglio di disciplina nazionale, qualora ritenga di essere stata ingiustamente sanzionata dal consiglio di disciplina regionale competente.
Tutto questo potrà apparire un percorso lungo e, talvolta, magari farraginoso, ma è così che vengono difesi e praticati democrazia, pluralismo e stato di diritto.
Necessario sarebbe che, alla luce proprio delle modalità di comunicazione ed informazione determinatesi con il sorgere dei nuovi media, l’Ordine si dotasse di strumenti innovativi, utili a rendere immediatamente riconoscibili, a garanzia della qualità dei contenuti pubblicati, coloro che sono iscritti all’ordine e dunque soggetti alle sue norme deontologiche. Il tema vero, d’altra parte, non è tanto la battaglia contro le fake news (che sono sempre esistite, sebbene oggi in quantità abnorme), ma al fake journalism, ovvero a quanti diffondono amatorialmente o intenzionalmente bufale, per non parlare del fake journalism “sintetico”, ovvero quello prodotto da bot automatici.
Non a caso è all’ordine del giorno il tema di come dotare gli iscritti all’albo di un “tesserino digitale”, cioè di una sorta di “bollino” immediatamente riconoscibile che, per esempio, garantisca immediatamente gli altri utenti di Facebook, o di un qualunque social network, che un certo profilo personale è riconducibile a un giornalista la cui identità, correttezza deontologica e formazione professionale è certificata dall’Ordine.
Questioni cruciali, insomma, su cui si misurerà la capacità della nostra categoria di stare al passo coi tempi e di reggere l’urto a cui meccanismi di psicopolizia orwelliana stanno sottoponendo i valori su cui si fonda la nostra libertà di stampa e di espressione.
Tratto dal volume “Giornalismo è cultura” pubblicato dall’ordine dei giornalisti della Campania