Otto motivi per riprendere una sana lotta antifiscale

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Otto motivi per riprendere una sana lotta antifiscale

19 Marzo 2007

Cari amici e lettori dell’Occidentale, comincia da oggi su questa rubrica un percorso comune che mi auguro anche divertente, ma che al di là di questo avverto come più che mai necessario: la riscoperta della più combattiva vena antifiscale che è connaturata nella storia e nella tradizione del grande pensiero liberale.
E’ una grande battaglia di civiltà, nell’Italia che nel 2006 ha registrato entrate pubbliche pari al 46,6% del Pil, e che nel 2007 grazie alla finanziaria tassassassina del governo Prodi rischia di arrivare al 50%. E’ una battaglia di civiltà perché vive del principio più alto della rivoluzione liberale, non è affatto quella meschina difesa dell’evasione “tara antropo-etica degli italiani”, come vorrebbe la riuscitissima vulgata imposta in questi anni dalla sinistra statalista, nella compiacenza dell’accademia italiana neokeynesiana e tardosraffiana, e dei grandi media confindustriali, per i quali uno Stato affluente di sempre più risorse è quello che ha più cespiti da redistribuire anche alle imprese.

Non è un caso, che la più riuscita manifestazione di massa contro il governo Prodi – quella che ha segnato il suo inabissamento nei sondaggi relativi alla fiducia – sia stata la grande marcia antitasse del 2 dicembre scorso. Ed è il ferro sul quale occorre continuare a battere. Il centrodestra non lo sta facendo con il dovuto vigore. Ne è testimonianza il fatto che, nel giro di soli tre mesi, è il centrosinistra a rilasciare ogni giorno incredibili dichiarazioni sulla necessità di restituire almeno in parte il colossale extragettito fiscale raccolto. Ed è Vincenzo Visco, alla testa del partito di chi rilascia le dichiarazioni più lunari, ispirate al principio “basta con le troppe tasse”. Faccio notare che secondo la relazione trimestrale di cassa e sullo stato dell’economia del Paese appena rilasciata dal governo, si è avuta la conferma che era falso il presupposto del terrorismo fiscale praticato dal governo in finanziaria, era falsa la stima del deficit tendenziale 2006 effettuata in corso d’anno dal governo Prodi, ed è falso anche l’obiettivo di drastico miglioramento nei confronti del Patto di stabilità.

Falsa era la stima di un Paese dalle finanze pubbliche in condizioni analoghe al 1992, poiché al contrario la crescita dell’economia reale italiana ha mosso i suoi passi dal secondo trimestre 2005, e le entrate tributarie hanno registrato un extragettitto nel 2006 di quasi 40 miliardi di euro: ennesima conferma che l’economia riprende e il gettito aumenta quanto le imposte non si alzano ma si abbassano, come ha fatto – anche se troppo poco – il governo Berlusconi. Falsa era la stima di un deficit corrente superiore al 5% del Pil, ribadita da Visco ancor dopo aver giurato nel governo e che la due diligence della commissione Faini aveva comunque ritoccato solo di qualche frazione di punto sotto il 5%, visto che i conti 2006 si chiudono con un indebitamento corrente – la grandezza che fa testo a Bruxelles – pari a solo 2,4% del Pil, e che per il resto il governo invece “trucca” il dato assommando due punti di partite straordinarie patrimoniali che potevano essere diversamente regolate, direttamente affluendo a debito. Infine, le 101 tasse nuove disposte in finanziaria non servono a migliorare i conti con l’Europa, visto che l’obiettivo del governo è di migliorare di un solo decimo di punto percentuale il deficit corrente 2007 rispetto a quello 2006: com’è sempre stato nella storia e come sempre sarà, quando un governo compie un’enorme leva fiscale è solo per raccogliere risorse da destinare a maggiori spese, non certo per ragioni di rigore.

Un po’ di “pillole”, allora, per evitare lunghezze inusitate visto che siamo solo ai saluti d’inizio. Alla domanda perché si debba alzare non tanto – ma tantissimo – i toni contro il prelievo fiscale nella nostra Italia odierna la mia risposta è come segue. Perché solo abbattendo le aliquote nel breve si costringe lo Stato a diminuire la sua intermediazione elefantiaca già ben oltre il 50%, e a riconcentrarsi nelle poche funzioni essenziali invece che a procedere per finanziamento incrementale di tutta la batteria di spese esistenti e potenziate. Nel medio termine, poi, diminuire le aliquote significa inoltre accrescere il gettito, e dunque lo Stato – purtroppo – ha poco di che preoccuparsi. Perché la Costituzione formale fiscale non ha più nulla a che vedere coi principi fissati in Costituzione, visto che la riserva di legge dell’articolo 23 posta a presidio del consenso dei contribuenti è sistematicamente violata da una prassi materiale in cui le norme fiscali sono esclusivo prodotto di decreti legge del governo.

Perché la realtà internazionale dei mercati e della competizione fiscale tra ordinamenti prova inequivocabilmente che a crescere di più e a garantire più efficace ascensore sociale a chi ha meno reddito disponibile sono i Paesi con prelievo basato su basse aliquote marginali, e meglio ancora se basato sul principio della proporzionalità e non della progressività: via la flat tax, detta in due parole. Perché il governo è solo un male necessario, come scriveva Tom Paine. Perché le esigenza di spesa dello Stato sono spesso immaginarie e sempre “interessate”, come scriveva Montesquieu. Perché i governi più stanno lontani dagli affari, che cittadini e imprenditori sanno giudicare meglio ci qualunque funzionario pubblico, meglio è per tutti, come scriveva Adam Smith. Perché l’evasione fiscale non è un crimine, come scriveva John Locke, ma una difesa da esazioni aberranti contrarie ai diritti naturali. Perché il peggior nemico della libertà è la tassazione arbitraria, e non c’è storia di rivoluzioni liberali che non sia stata storia di rivolte contro le pretese esose del fisco: da quella per cui si istituisce nella tradizione ebraica la festa di Hannukah alla Magna Charta Libertatum, dalla Rivoluzione Americana dei Padri Fondatori giù giù fino alle svolte che Ronald Reagan e Maggie Thatcher , insieme ai teorici dell’economia dell’offerta, hanno realizzato rimettendo nell’angolo i redistributori del reddito attraverso lo Stato, di tutte le più diverse ispirazioni politiche ed economiche.

Ci divertiremo, vedrete. Visco non è l’etica pubblica. E non lo è la sua Anagrafe tributaria orwelliana. Sono il monopolio della vessazione, ed è colpa dell’inedia e dell’inerzia dei liberali se la loro virtù coatta è diventata – apparentemente – monopolista.