Padri e figli uniti contro un sistema pensionistico ostaggio della politica
08 Luglio 2011
Da una parte i giovani (lavoratori), dall’altra i vecchi (pensionati). Seriamente preoccupati i primi, alquanto seccati i secondi. Ieri è andato in onda il teatrino un po’ naif dei cittadini italiani alle prese con la previdenza. Attori: da una parte lo studio Censis-Unipol che ha messo in guardia i giovani sul loro futuro da pensionati, avvertendo che avranno una pensione poco superiore alla metà dell’ultimo stipendio; dall’altra la manovra finanziaria che mette le mani in tasca ai pensionati più ricchi, per costringerli a contribuire al risanamento del debito pubblico. Ognuno per la propria ragione, giovani e pensionati, si sono così ritrovati uniti contro il sistema previdenziale perché sempre più manovrato da roaming per l’equilibrio dei conti pubblici, piuttosto che da sistema assicurativo per la vecchiaia. Il regista ha dovuto alla fine rassicurare tutti. Il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, infatti, ha commentato che “neanche una zingara saprebbe disegnare questo tipo di percorsi” alludendo alle drammatiche previsioni dello studio Censis-Unipol; ai (quasi) coetanei pensionati, invece, ha mostrato vicinanza dicendosi “pronto a fare delle modifiche.”
Quello delle pensioni è diventato un tema di forte richiamo per l’opinione pubblica. Se ne parla e se ne discute sui quotidiani, sulle riviste e persino nei talk show serali. A far scatenare quest’attenzione senza precedenti sui media, è la parabola discendente di un sistema finora al libero arbitrio della Politica. Ora, invece, la previdenza è implicata (dal) e implicante per il Pil e può trasformarsi in un arma letale per un governo e i suoi governati. Le notizie diffuse ieri, dunque, seppure da angolature diverse, ripropongono l’attualità del problema “previdenza”. Il dilemma è una marcata discrasia tra due generazioni attigue: padri e figli. Discrasia che si manifesta su due versanti: sulla “sostenibilità” dei conti e sulla “efficienza” del sistema. E se per il primo versante sono stati fatti enormi passi in avanti (nuovo criterio di calcolo della pensione; incremento dell’età d’accesso alla pensione; introduzione delle finestre; ancoraggio alla speranza di vita; ecc.), poco si percepisce di tentato (di riforme) sul lato dell’efficienza. Ed è la ragione per cui se, ancora ieri, si guarda all’orizzonte dei giovani con mestizia: una pensione ce l’avranno; ma sarà di poco superiore alla metà dell’ultimo stipendio.
Cominciamo allora a parlare di giovani.
Lo studio Censis-Unipol ripropone il problema dell’efficienza del sistema pensionistico. Si parla e discute di pensioni come se ci fosse un unico criterio di riflessione, ossia la sostenibilità: l’incidenza sul Pil. In questo modo il problema vero resta in disparte. E il problema vero è la tenuta del sistema, ossia il livello delle future prestazioni. La tenuta del sistema, infatti, non significa solo far rientrare i conti della spesa previdenziale entro i parametri del bilancio pubblico. Se produttivo di un servizio a favore della collettività, occorre pure che il sistema ed i suoi conti quadrino assieme ad un adeguato livello di tutele garantite ai cittadini (ai lavoratori). Oggi, guardando al futuro, questa garanzia è lontana, a nulla aiutando la presenza di strumenti integrativi (come i fondi pensione). Perché quello delle pensioni dei giovani è un problema interdipendente dai livelli retributivi della vita lavorativa, dai criteri di calcolo della pensione, dalla capacità dello Stato d’integrare le pensioni con misure assistenziali, come è successo per i loro padri. Non ha tutti i torti, pertanto, uno studio statistico che proponga ai giovani uno scuro orizzonte: la pensione ce l’avranno, ma non sarà capace di garantire lo stesso livello di reddito assicurato ai loro padri.
Veniamo adesso ai pensionati.
La manovra approdata ieri in gazzetta ufficiale “chiede” un contributo a quelli più ricchi. Una norma senza mascheramenti: sancisce apertamente infatti che la misura è «a titolo di concorso per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Praticamente, per il biennio 2012/2013, verrà applicata una riduzione ai tradizionali aggiornamenti dell’assegno di pensione che li adegua al tasso d’inflazione. La norma, operativa da ieri (è nel dl n. 98/2011 pubblicato sulla GU n. 155/2011), stabilisce che la predetta rivalutazione automatica non è concessa, per il biennio 2012/2013, alle pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo di pensione Inps; inoltre, alle pensioni di importo compreso tra tre e cinque volte il trattamento minimo Inps, la rivalutazione sarà applicata in misura del 45 per cento. Ciò significa che, nel prossimo biennio, le pensioni d’importo superiore ai 2.337 euro al mese non beneficeranno della cosiddetta perequazione automatica, che scatta ogni anno dal 1° gennaio assicurando la loro rivalutazione sulla base dell’indice Istat. Per fare un esempio, considerando la perequazione che c’è stata quest’anno, le predette pensioni perderanno circa 40 euro al mese per ciascuno dei due anni (insomma circa mille euro in due anni). Per le fasce di pensione d’importo compreso fra tre e cinque volte il minimo, cioè comprese tra 1.403 e 2.337, invece, l’indice di rivalutazione, sempre nel biennio 2012/2013, sarà applicato in misura ridotta al 45 per cento (normalmente, invece, tale misura è pari al 90% del tasso Istat. Come accennato, però, il ministro Sacconi si è detto pronto a modificare la norma.
Messe insieme queste due notizie formano un quadro quasi paradossale. Da una parte i giovani che lamentano l’incertezza di un futuro da pensionati, dall’altra parte i pensionati (d’oro) che deplorano il contributo forzoso richiesto dalla manovra per risanare il bilancio dello stato. Ci sarebbe una vita d’uscita per evitare l’uno e l’altro inconveniente: impiantare un sistema contributivo puro. E’ la “previdenza”, infatti, che deve essere obbligatoria per tutti; ma la scelta del “gestore” va lasciata libera. Un sistema così obbligherebbe solo ad avere un contratto di previdenza, non anche a farlo con uno specifico ente previdenziale. In questo modo, la Politica avrebbe meno spazio (anche per interventi di “risanamento” dei conti pubblici) e ciascuno diverrebbe artefice del proprio destino (pensionistico).