Pakistan, la rielezione di Musharraf non è garanzia di stabilità
05 Ottobre 2007
E’ ormai alle porte l’appuntamento delle elezioni presidenziali in Pakistan, previsto per domani, e l’unico candidato appare essere l’attuale presidente, Pervez Musharraf. Il Generale sta lottando per la propria sopravvivenza politica, anche con l’aiuto di Washington. Gli Stati Uniti, non a caso, hanno dato il loro appoggio al dialogo aperto con l’ex premier Benazir Bhutto, che dovrebbe preludere all’emergere di un nuovo ordine politico. Musharraf sarà molto verosimilmente chiamato a spogliarsi dell’uniforme, rinunciando alla doppia carica di presidente e di capo militare supremo, e a condividere il potere non solo con un primo ministro che guiderà un governo di coalizione, ma anche con chi lo sostituirà nel ruolo di massimo responsabile dell’esercito.
La prospettiva di dover rinunciare alla divisa ha spinto Musharraf ad affidare nelle ultime settimane ad alcuni suoi fedelissimi il comando sia dell’esercito che della potente agenzia d’intelligence Isi (Inter-Services Intelligence). E’ il caso rispettivamente del Generale Ashfaq Kayani, destinato a succedere all’attuale presidente al vertice della gerarchia militare, e del Generale Nadeem Taj, chiamato a ricoprire una posizione particolarmente delicata dato lo storico coinvolgimento dell’Isi nelle dinamiche politiche interne del Pakistan. E’ chiaro che Musharraf intende mantenere, per quanto possibile, il controllo sull’esercito, malgrado egli già disponga del potere di scegliere i capi delle tre forze armate in base alla Costituzione.
Curiosamente, entrambe le nomine si inseriscono nel contesto delle trattative con la Bhutto, che detiene la leadership del più grande gruppo di opposizione, il Partito Popolare Pachistano, e non fa mistero della sua ambizione di vedersi assegnato l’incarico che era stato per due volte suo negli anni ottanta e novanta. Si dice infatti che Taj sia gradito a quest’ultima, mentre Kayani è intervenuto direttamente nei colloqui intrapresi in vista di un’intesa che ormai sarebbe cosa fatta. La Bhutto, accusata per fatti di corruzione risalenti all’epoca della premiership, beneficerebbe, insieme ad altri responsabili politici, di un’amnistia, in cambio dell’assenso del suo partito a non ostacolare la rielezione di Musharraf.
Al di là delle speculazioni di chi pretende di scorgere in un accordo fra Musharraf e Benazir Bhutto un’occasione per “la transizione verso la democrazia”, è improbabile che questo passaggio cruciale porti una maggiore stabilità al Paese. Potrebbe anzi essere vero il contrario se si pensa che, con il formarsi di una nuova troika del potere, i nuovi capi dell’esercito e dell’Isi saranno distratti dalle questioni politiche in un momento in cui la loro attenzione dovrebbe essere primariamente rivolta al contrasto dell’insurrezione jihadista che infiamma soprattutto le famigerate aree tribali al confine con l’Afghanistan. Malgrado ci si aspetti una svolta militare dal nuovo capo dell’esercito, specie dal punto di vista tattico, rimangono dubbi sulle capacità d’Islamabad di risolvere il conflitto.
E’ noto che la regione che si estende a cavallo fra i due Paesi – abitata prevalentemente da tribù pashtun legate dalle comuni radici etniche alla maggioranza della popolazione che risiede nella provincia di frontiera nord-occidentale e in Afghanistan (inclusi i talebani) – si è sempre sottratta al controllo del governo centrale, sin dall’indipendenza dall’India britannica ottenuta nel 1947. Gli stessi inglesi non erano stati in grado di imporre la loro autorità su questo territorio, al punto che erano stati costretti a scendere a compromessi con i malik, ossia gli anziani delle tribù. E Musharraf aveva ripiegato proprio sul metodo negoziale usato dai britannici dopo il fallimento delle operazioni condotte dalle truppe pachistane, che erano entrate in forze nella regione nel marzo del 2004 in seguito alle pressioni che provenivano da Washington.
E’ interessante notare che gli scarsi risultati conseguiti con un approccio che ha visto alternativamente l’impiego massiccio della forza militare e inconcludenti aperture al dialogo con gli insorti, hanno spinto alcuni analisti a caldeggiare l’applicazione di un modello di contro-guerriglia (o counterinsurgency) che si ispira all’esperienza accumulata dall’esercito indiano per venire a capo dell’insurrezione in Kashmir. D’altronde, fanno notare questi esperti, il territorio non è molto dissimile da quello che caratterizza la regione tribale del Pakistan, anche perché in entrambi i casi sono fortemente radicate la diffidenza e l’ostilità nei confronti del potere centrale. Ma, fino ad oggi, le forze militari pachistane sono intervenute solo in seguito alle richieste avanzate dall’amministrazione americana, mentre Musharraf è spesso apparso riluttante ad affrontare seriamente il problema.
Adesso gli attacchi, per lo più condotti da attentatori suicidi, prendono di mira l’esercito, i reparti di frontiera e i responsabili governativi sia nelle aree tribali che in quelle del nordovest. I soldati di Islamabad sono vittime anche di rapimenti, una tragica sorte che è toccata recentemente a più di duecento militari in una delle zone più calde, quella del Waziristan meridionale, dove si registra un’intensa attività dei miliziani talebani e di al-Qaeda. Ad essere oggetto di attacchi sono state persino unità di élite delle forze speciali e membri dell’Isi, come è dimostrato dalle violenze verificatesi lo scorso agosto nella regione di Rawalpindi.
Questi sviluppi sono sicuramente preoccupanti. Molti li interpretano come la conseguenza inevitabile della mano pesante usata da Musharraf nella gestione della crisi della Moschea Rossa, che aveva spostato in luglio i riflettori internazionali sulla precaria situazione interna del Pakistan. E ciò ovviamente lascia intravedere scenari non rassicuranti per l’evoluzione della situazione in Afghanistan e i tentativi di stabilizzazione del Paese portati avanti dagli Stati Uniti.