Paper sulla “Geopolitica dell’Energia”
28 Maggio 2010
di Carlo Jean
La questione energetica non è da considerarsi solamente un argomento scientifico o tecnologico, ma anche politico. Da tempo, infatti, è entrata nell’agenda dei governi europei. Si rende dunque necessario fare chiarezza su alcuni termini quali autonomia energetica, sicurezza energetica, efficienza energetica non dimenticando di osservare la realtà nazionale. Con la premessa che l’era del petrolio finirà non per l’esaurimento del combustibile, ma per l’utilizzo di nuove tecnologie più economiche e sicure, bisogna porre sempre maggiore attenzione al tema della sicurezza energetica.
1. L’energia costituisce la linfa vitale dell’economia. Il suo consumo è cresciuto ad un ritmo molto sostenuto dall’inizio della rivoluzione industriale. Era di 0,7 TW* nel 1900. Oggi è venti volte superiore. Raggiunge i 15 TW/anno. L’86,5% dell’energia primaria mondiale è prodotta da combustibili fossili, quindi dal sole, origine anche dell’energia eolica, del fotovoltaico e delle biomasse. Se fosse economicamente possibile sfruttarla, l’utilizzo diretto anche solo di una minima parte dell’energia solare soddisferebbe ampiamente tutti i fabbisogni energetici mondiali. La “costante solare”, cioè la quantità di energia solare per m2 di superficie terrestre, è di 1,3-1,4 W. Quindi, essa ammonta complessivamente a 86.000 TW, rispetto ad un consumo attuale di 15 (l’eolico potrebbe produrre 870 TW ed il geotermico 32). Attualmente, però, il suo costo, l’impatto paesaggistico e la quantità di superficie occupata sono proibitivi. Pertanto, le energie rinnovabili (con l’eccezione dell’idroelettrico e le biomasse) coprono poco più dell’1% dei fabbisogni di energia primaria (solare-calore 0,5%; eolico 0,3%; fotovoltaico 0,04%). Le biomasse sono largamente utilizzate nei paesi in via di sviluppo e coprono il 4% dell’energia globalmente consumata. L’idroelettrico rappresenta il 3% dell’energia primaria e produce il 6-7% dell’elettricità mondiale. Attualmente, la tendenza del settore è quella di costruire mini-centrali, riducendo la costruzione di grandi dighe. L’apporto del geotermico, delle maree e delle correnti marine è del tutto trascurabile.
Il nucleare produce il 16% dell’elettricità mondiale ed il 6% del totale di energia primaria. Marginalmente è utilizzato anche per la propulsione navale. Le attuali centrali nucleari sono a fissione di elementi pesanti (uranio arricchito, con il 3-5% di U235, rispetto allo 0,7% esistente nell’uranio naturale. Per produrre un’esplosione nucleare l’uranio deve essere militarizzato, cioè arricchito almeno al 90%. Nonostante la loro economicità complessiva, il nucleare fornisce solo energia elettrica. Non può sostituire i combustibili fossili, indispensabili oggi per l’autotrasporto e per la petrolchimica. La situazione non muterà né con la messa a punto delle centrali di 4^ generazione, che sono a sicurezza intrinseca (si disattivano senza l’intervento umano), né con le centrali self-breeder (come doveva essere il Super Phoenix franco-italo-tedesco e come sono i BN 600 e BN 800 russi), che “bruciano” anche il plutonio. Esse eliminano gran parte delle scorie di “combustibile spento” ed aumentano di circa 100 volte l’attuale efficienza energetica dell’uranio debolmente arricchito. Per le centrali a fusione, esiste il progetto internazionale ITER e quello italo-russo IGNITOR, approvato nel recente incontro tra Berlusconi e Putin e derivante da ricerche fatte al MIT dal Professor Coppi.
La messa a punto dell’energia per fusione (deuterio in elio) – che avverrà verso la fine del XXI secolo – renderà possibile la sostituzione di gran parte dei combustibili fossili. Le centrali a fusione sono in pratica bombe H o termonucleari controllate, che riproducono le esplosioni che generano l’energia solare. Solo allora l’attuale “era del petrolio” (subentrato a quella del carbone, dopo la seconda guerra mondiale) sarà sostituita da quella dell’idrogeno. Quest’ultimo non è un combustibile, ma un vettore di trasporto dell’energia. Oggi non è possibile farlo per ragioni economiche visto il rendimento troppo basso (15%) che hanno le fuel cells adottate per il trasporto.
2. Tra le fonti fossili domina il petrolio (37% dei consumi mondiali di energia primaria), seguito dal carbone (25%) e dal gas naturale (23%). Per ridurre l’entità dei gas ad effetto serra (in pratica della CO2), il consumo del carbone è in diminuzione, eccetto in Cina. Un forte aumento registra invece quello del gas naturale. Il carbone potrà aumentare la sua quota, qualora venissero messe a punto economiche tecnologie di sequestro e di stoccaggio della CO2.
Per le fonti fossili, occorre distinguere fra riserve e risorse. Le prime sono connesse all’utilizzazione di tecnologie che ne rendano economica l’estrazione. Gli allarmi sul loro esaurimento (Picco di Hubbert) e le preoccupazioni per la sicurezza energetica, derivanti dal fatto che i produttori sono diversi dai consumatori e possono praticare ricatti politici (come avvenuto nei due shock petroliferi del 1973 e 1979 o nelle limitazioni, nel 2006 e nel 2009, del flusso del gas russo verso l’Europa che, per l’80%, transita per l’Ucraina), rappresentano i punti più dibattuti nella c.d. “geopolitica del gas e del petrolio”, detta anche dei “gasdotti ed oleodotti”. L’“indipendenza energetica” è impossibile da realizzare fino a che esisterà l’“era del petrolio”. Si deve invece puntare sulla sicurezza energetica, cioè su di un’energia sostenibile, competitiva e sicura, attraverso la diversificazione sia del mix energetico sia delle fonti di approvvigionamento. E’ la strategia seguita già negli anni Cinquanta dall’ENI di Mattei, con il coinvolgimento dei produttori e che continua tuttora con la Russia, pur incontrando resistenze specie da parte degli USA.
3. Prima di procedere all’esame della situazione italiana, è opportuno accennare a taluni concetti base di ogni politica energetica.
Autonomia energetica: l’“era del petrolio” non finirà per l’esaurimento del petrolio, come l’“era della pietra” non è finita per l’esaurimento delle pietre, ma per l’utilizzazione di nuove tecnologie, più economiche e sicure. In pratica, dall’energia per fusione nucleare che fornirà immense quantità di energia a costo praticamente zero. Diventerà allora economicamente possibile sostituire gli idrocarburi con le celle a combustibile, con minore impatto ambientale. La fusione dipende grandemente dallo sviluppo tecnologico, specie in campo criogenetico (materiali delle centrali che resistano a decine di milioni di gradi Celsius). A fine anni Sessanta, l’apocalittico Club di Roma aveva previsto la fine del petrolio entro 20 anni. Oggi, si valuta che esista un’autonomia di 43 anni (60 per il gas, 200 per il carbone e 80 per l’uranio). Lo sviluppo tecnologico, consente oggi di estrarre dai giacimenti utilizzati il 33% del petrolio, rispetto al 22% di cinquant’anni fa. Ogni punto in più corrisponde ad un’autonomia globale di circa due anni, pur tenendo conto dell’aumento dei consumi. Inoltre, l’entità delle riserve dipende dal prezzo del barile. Più esso è elevato, più diviene economicamente possibile utilizzare risorse geologiche che non lo sono oggi, in particolare i c.d. petroli e gas non convenzionali, quali le sabbie del Canada, i bitumi dell’Orinoco e, soprattutto, gli shale gas. Al limite, con un prezzo del barile di 100 dollari, diverrebbe conveniente produrre benzina dal carbone (con le tecnologie del cracking, utilizzate dalla Germania durante la seconda guerra mondiale). Larga parte della superficie terrestre (ad esempio, gli oceani con profondità superiori ai 3.000 m) non è stata ancora esplorata. Molti nuovi giacimenti verranno trovati. Sotto la calotta artica esiste un oceano di petrolio.
Sicurezza energetica: si basa sulla differenziazione sia del mix di energia primaria utilizzata, sia dei paesi da cui si importa, sia sulle interconnessioni delle reti, che rende possibile la c.d. “solidarietà energetica”, almeno in Europa, contro l’uso politico del gas da parte della Russia. Nel caso più delicato – quello dei paesi dell’Europa centro-orientale che dipendono per il 100% dal gas russo – tale sicurezza deriva soprattutto dall’interconnessione delle reti (che permetterà di “pompare” gas da Ovest ad Est) e dall’esistenza di riserve strategiche (il livello auspicato è di tre mesi di importazioni; lo possiedono solo gli USA ed unicamente per il petrolio, più facilmente stoccabile del gas). L’Italia è particolarmente vulnerabile dipendendo per l’86% dalle importazioni, anche di energia elettrica (pari al 15% dei consumi nazionali, prima della crisi economica). Tale quota tende ad aumentare per i maggiori consumi e la diminuzione della produzione nazionale. Nel 2030 potrà raggiungere il 95% per i combustibili fossili.
Intensità energetica: è la quantità di energia primaria necessaria per produrre una data entità di PIL. Quella italiana è pari al 64% della media dell’UE, anche perché l’Italia ha delocalizzato gran parte dell’industria pesante e delle produzioni più energivore e perché la sua efficienza energetica è tra le maggiori del mondo;
Efficienza energetica: è la percentuale di energia primaria che viene realmente utilizzata nei consumi finali. Collegata ad essa è il “risparmio energetico”, realizzato con la coibentazione degli edifici, con il minor consumo dei veicoli, con la diminuzione delle dispersioni sulla rete di distribuzione, ecc. Assieme al Giappone ed alla Germania, l’Italia ha la più alta efficienza energetica del mondo. Paradossalmente, ciò l’ha penalizzata negli accordi di Kyoto e nel 20+20+20 dell’UE. Il costo che dovrà fronteggiare per la riduzione della CO2 sarà infatti molto elevato. I negoziatori italiani dei due accordi sono stati mossi dall’ideologia, unita ad un’incredibile sprovvedutezza. L’Italia rischia di dover pagare per le sue emissioni circa 20 mld di euro all’anno, mentre le sue emissioni di CO2 per abitante sono inferiori ad esempio a quelle della Germania. L’ecologismo del “non fare” si è purtroppo unito in questo caso alla leggerezza, se non a stupidità politica. I margini di riduzione italiani rispetto ai livelli di emissione del 1990, presi a riferimento, sono infatti molto più ridotti di quelli degli altri paesi.
Nel mondo, ma anche in Italia, è molto elevata la dispersione dell’energia sulla rete sia elettrica che del gas. Essa ammonta a livello mondiale a circa il 15%. Ciò significa che vengono buttati via oltre 2 TW di energia primaria sui 15 di consumo totale. Sempre a livello mondiale, tenuto conto dell’energia impiegata per l’estrazione, il trasporto e la distribuzione, il 27% dell’energia primaria non viene utilizzata. La minore inefficienza si riscontra nell’elettricità. Per ogni 2 TW di elettricità prodotta si consumano 5 TW di energia, con un’efficienza del 38%. Nelle centrali italiane a ciclo combinato (gas) si raggiunge però un’efficienza del 55%. Le prospettive di risparmio energetico e di riduzione della CO2 sono più collegate all’aumento dell’efficienza che all’imposizione di tetti delle emissioni (ad esempio, con la borsa della CO2, fondata sul sistema cap and trade). Quest’ultima è estremamente costosa. L’imposizione di tetti alle emissioni non viene accettata sia dai paesi in via di sviluppo, che temono di vedere compromessa la loro crescita, che dai più grandi inquinamenti, cioè USA e Cina. Per questo la Conferenza di Copenhagen, da cui sarebbe dovuto derivare un Kyoto 2, è fallita. La diminuzione delle emissioni ad effetto serra non viene accettata anche perché molti scienziati ritengono che solo lo 0,5% dei cambiamenti climatici derivi dall’effetto serra. Secondo questi esperti, il riscaldamento globale dipenderebbe sostanzialmente dalle variazioni delle macchie solari. L’effetto serra sarebbe, quindi, una “bufala” come il “buco dell’ozono”, di cui oggi nessuno più parla.
Costi umani dell’energia: sono rappresentati dalle perdite di vite umane per TW di energia prodotta. La meno “umanitaria” energia elettrica è l’idroelettrica (vds. il caso Vajont) seguita dal carbone (circa 10.000 minatori all’anno muoiono in Cina). Il nucleare è di gran lunga il più umanitario. Inoltre, si è sempre preso carico delle sue scorie. Il loro stoccaggio, per inciso, non rappresenta tanto un problema tecnico-ingegneristico, ma psicologico-politico. L’incidente di Chernobyl, secondo inchieste ONU, ha provocato grandi costi di decontaminazione, ma solo da 59 a 560 vittime e 4.000 contaminati che ancora vivono. A 1.500 m dal reattore, il livello di radioattività è simile a quello provocato dal radon dei sampietrini di Piazza San Pietro. L’intensità della sua radioattività è superiore di molto a quella consentita in un impianto nucleare. Se San Pietro fosse una centrale, occorrerebbe far sgomberare il Papa.
Densità energetica: è la quantità dell’energia contenuta in un’unità di volume di fonte primaria. Essa incide sui costi del trasporto e della distribuzione. Ciò ha fatto sì che il gas naturale – chiamato anche l’“oro azzurro” – sia stato, fino a qualche decennio fa, il “cugino povero del petrolio” e che i maggiori consumi di gas siano effettuati nei paesi produttori: 70% contro il 25% del petrolio. I costi del trasporto del gas russo in Europa Occidentale, raggiungono il 50% della quantità di gas immessa in rete. La densità energetica del gas è di circa mille volte inferiore a quella del petrolio. Con il LNG (Liquefied Natural Gas) essa viene ridotta a poco meno di due volte, ma con elevati costi infrastrutturali (a cui si aggiunge la “sindrome NIMBY” per la costruzione dei rigassificatori). Pur aumentando la sicurezza energetica, i costi della liquefazione ammontano al 70% del prezzo del gas. I vantaggi del gas sono soprattutto di duttilità ed ecologici: per 1 KWh si producono 200 gr CO2 e più di 600 con il carbone. Il costo di una tonnellata di CO2 è stato fissato dall’UE a 15 euro, ma nel mercato della borsa del CO2 ha già raggiunto i 23. Taluni esperti hanno ipotizzato che nel 2020 costerà fino a 50 euro a tonnellata. L’Italia ne produce oltre 450 milioni all’anno.
4. Sulla situazione in Italia molto è già stato detto. Quanto segue ne rappresenta una semplice integrazione. L’Italia importa oggi l’86,5% dell’energia che consuma, percentuale destinata ad attestarsi al 95% nel 2020, per effetto sia dell’aumento dei consumi, che della diminuzione della produzione energetica nazionale. Dispone solo di 0,7 miliardi di barili di petrolio, con una produzione di 100.000 barili all’anno, pari al 7-8% dei consumi. La produzione di gas diminuisce rapidamente, come peraltro nel resto dell’Europa. Si prevede che entro il 2020, l’Europa debba importare 180 miliardi di m3 in più di gas all’anno (oltre ai 250 che già importa): 100 per l’aumento dei consumi, 80 per il calo della produzione.
Nonostante la dipendenza dall’estero e la carenza di interconnessioni europee, la sicurezza energetica italiana è abbastanza buona, dato il ruolo di cerniera energetica posseduto dal Mediterraneo, la tradizionale collaborazione con il Nord Africa (la Libia ci fornisce il 33% del petrolio; l’Algeria il 38% del gas) e con la Russia (vds. allegati 1 e 2), soprattutto nel settore del gas visto il rango strategico a livello mondiale, posseduto dall’Eni, dalla Snam e da Saipem. Anche Edison ed Enel stanno aumentando la loro proiezione internazionale. La prima con l’interconnessione Turchia-Grecia-Italia e con il rigassificatore di Porto Levante. L’Enel con il partenariato con la Sonatrach algerino, che gli fornisce il 15% del gas che consuma. Con Gazprom, l’Eni è un partner privilegiato, in particolare per il progetto South Stream, ma anche per le joint venture in Libia. Il South Stream (63 mld m3/anno) è complementare e non alternativo al Nabucco (31 mld m3/anno), che è però handicappato dal mancato coinvolgimento dei produttori. La crisi economica ha comportato una riduzione del consumo del gas in Italia nel 2009 di circa il 7% e del suo prezzo di circa il 30%. Ciò rende più difficoltosi il delivereging e i finanziamenti dei nuovi progetti, oltre che quelli per il ritorno al nucleare e per lo sviluppo delle rinnovabili. Le preoccupazioni circa la mancanza di gas sono cose del passato, dato che lo sviluppo delle tecnologie del fracting del gas non convenzionale (shale gas) coprirà i consumi degli USA per una durata valutata da 30 a 100 anni. Si libereranno così varie centinaia di miliardi di m3 all’anno per il mercato mondiale. Le riserve accertate in 48 dei 50 Stati americani ammontano a 52.000 miliardi di m3 di gas. Lo shale gas è costituito prevalentemente da metano ed è contenuto nelle rocce scistose situate a circa 1.500 m di profondità. Esse vanno fratturate per poter estrarre il gas. Esiste ovunque, ma è difficile da estrarre in Europa, data la densità della popolazione. Potrà invece moltiplicare le riserve del Nord Africa e della Russia, essenziali per l’UE.
L’Italia esporta una consistente quantità di benzina, poiché dispone di una capacità di raffinazione superiore alle necessità nazionali. Ciò è derivato dalla mancanza di carbone e dalla conseguente scelta di utilizzare gli oli pesanti per la produzione di energia elettrica, per il riscaldamento e, soprattutto, per gli impieghi industriali (plastica, bitumi, fertilizzanti, pesticidi, ecc.).
Il mercato mondiale del gas non è unificato come quello del petrolio, ma regolato da accordi bilaterali fra produttori e consumatori, con contratti take or pay, generalmente a lungo termine, dati i lunghi tempi di ammortamento e la rigidità dei gasdotti. Gioca, al riguardo, soprattutto il fatto che un consumatore non può essere sostituito con un altro. Ciò spiega perché non esista un cartello dei produttori di gas, simile all’OPEC. Mentre per il petrolio esistono “fidanzamenti” (anche se con la Libia abbiamo accordi fino al 2048), per il gas esistono solo “matrimoni”. L’LNG copre appena il 10% del consumo mondiale. Il suo sviluppo è frenato dagli investimenti massicci che richiede e che sono dell’ordine del miliardo di euro per ogni miliardo di m3 di gas all’anno. Esso è impiegato soprattutto in Asia Orientale, per importare gas dal Qatar, dall’Indonesia e da Sakhalin.
Tutto il settore dell’energia richiederà massicci investimenti. L’IEA ha valutato che, entro il 2030, gli investimenti a livello mondiale dovranno ammontare a 26.000 miliardi di dollari (quasi il 200% del PIL USA). Ogni anno dovranno essere investiti 1.200 mld di dollari, pari al 1,4 del PIL mondiale. Il 53% dovrà essere devoluto al settore elettrico in rapidissima crescita nei paesi emergenti.
L’Italia ha consumi di gas superiori di circa il 50% rispetto alla media dell’UE (consumo individuale di 1.600 m3/anno rispetto ad una media europea di 1.000), che peraltro è molto inferiore a quella USA (2.000 m3/anno/abitante) e quella russa (3.000 m3). La produzione nazionale che, nel 1980, copriva il 40% dei consumi, oggi li soddisfa solo per il 14%. Le importazioni provengono per il 38% dall’Algeria (gasdotti Transmed-Enrico Mattei e GALSI); per il 32% dalla Russia e per il 14% dall’Olanda, che sta però cedendo il suo posto alla Libia. Quest’ultima ci fornisce attraverso il Green Stream, 8 mld di m3 all’anno, che saranno presto 11 con il potenziamento delle stazioni di pompaggio.
Rispetto alla media europea, l’Italia registra nel suo mix energetico una netta prevalenza del gas (37% contro 24%) e del petrolio (45% contro 38%), mentre consuma metà del carbone (9% rispetto al 18%) ed ha rinunciato al nucleare. L’industria ed i trasporti sono i settori che assorbono più energia finale 31% e 28%, mentre i consumi delle famiglie ammontano al 23% e quelli del commercio al 12%.
La principale anomalia italiana consiste nel fatto che l’energia elettrica prodotta dal gas ammonta al 60% del totale, mentre negli altri paesi europei dominano carbone e nucleare. Il 35% del consumo di gas è destinato alla produzione di elettricità. Ciò penalizza grandemente l’industria italiana, che compra energia elettrica ad un prezzo superiore fino ad un terzo rispetto a quello sostenuto dai suoi concorrenti europei, anche per i balzelli posti sulle bollette elettriche dal finanziamento delle rinnovabili e dallo smantellamento del vecchio nucleare.
La diminuzione della dipendenza dal gas è pertanto centrale nella strategia energetica nazionale (sancita dalla legge 133 del 6 agosto 2008). Essa prevede una razionalizzazione dei consumi, un risparmio energetico con aumento dell’efficienza di centrali, reti e motori, il ritorno al nucleare e una maggiore utilizzazione delle rinnovabili, nonostante che tali ultime fonti energetiche, a differenza del primo (finanziato in project financing con garanzie pubbliche solo per tempi, prezzo e consumo), siano ampiamente sovvenzionate dagli altri utenti dell’energia elettrica.
In particolare, è stato deciso che il 25% dell’energia elettrica nel 2030 (cioè circa 100 miliardi di KWh/anno) venga prodotto da centrali nucleari, di cui la prima tranche – consistente in quattro EPR dell’Areva – dovrebbe vedere l’inizio della costruzione entro 3 anni, almeno secondo il premier Berlusconi, e quella della seconda tranche di altre quattro centrali (EPR o AP1000 della Westinghouse-Toshiba) dovrebbe iniziare immediatamente dopo la costruzione delle prime, ed essere completata entro il 2030.
Oltre ad aumentare la sicurezza energetica nazionale, il ritorno al nucleare permette una maggiore diversificazione del tipo di energia primaria. Inoltre, il costo dell’uranio incide solo sul 7-8% del costo del KWh (rispetto al 75% del gas). Poi, i fornitori (Australia e Canada) presentano caratteristiche di minore volatilità di quelli del gas. Con la costruzione di otto centrali, si ridurranno le emissioni di CO2 di circa 70-80 milioni di tonnellate all’anno. Il mix energetico italiano sarà così più simile a quello della media europea. Il ricorso al nucleare non è alternativo, ma complementare a quello delle rinnovabili e delle centrali a “carbone pulito”, la prima delle quali è recentemente entrata in funzione a Civitavecchia.
* Il watt (W) è l’unità di misura della potenza nel sistema internazionale. Un Terawatt (TW) equivale ad un milione di miliardi di W. Il Joule è l’unità di misura dell’energia. Un W equivale ad un Joule di energia al secondo.