Parla Quagliariello: Renzi, la congiura di Catilina e il futuro del Centrodestra

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Parla Quagliariello: Renzi, la congiura di Catilina e il futuro del Centrodestra

Senatore Quagliariello, quanto costa un litro di latte?

“Andiamo, così è troppo facile. Comunque oscilla intorno agli 1,50 euro”. 

Più di tanti ragionamenti, la scena del ministro Padoan in panne davanti a una domanda sul prezzo del latte durante la campagna referendaria è diventata il simbolo dello scollamento tra il governo e il Paese reale. Uno scollamento che le urne hanno poi inequivocabilmente confermato. 

“E’ così. Il Paese non si è riconosciuto nell’immagine costruita da Renzi, e imporre quell’immagine  in misura così invasiva si è rivelato controproducente per l’ex premier. Da un lato ha aumentato l’effetto rigetto e dunque le proporzioni della sconfitta, dall’altro lo ha reso ubriaco di se stesso a tal punto da non fargli vedere cosa covava fra la gente.

Secondo lei, la formazione del nuovo governo denota consapevolezza di questo distacco e desiderio di fare qualcosa per colmarlo?

“Surreale. La sostanziale continuità nella compagine di governo è un bruttissimo segnale. Ho apprezzato il cambiamento di tono del presidente Gentiloni, ma è evidente che il suo esecutivo sconta già in partenza il limite della sua composizione. Uno schiaffo al popolo che il 4 dicembre si è pronunciato con chiarezza”. 

Si riferisce al giglio magico sul ponte di comando?

“Registro che dopo una forsennata campagna elettorale passata a dare dei ‘poltronisti’ agli esponenti dell’opposizione, i protagonisti della battaglia per Sì, che avevano legato all’esito del referendum addirittura la prosecuzione della loro esperienza politica, non hanno avuto nemmeno la decenza di saltare un giro. Un incredibile autogol”.

La doppiezza togliattiana in salsa 3.0?

“Guardi, la doppiezza togliattiana era una cosa seria. Oggi, più modestamente, è far finta di giocare alla Playstation a Pontassieve e invece trattare fino all’ultima briciola di potere”.

E Gentiloni cosa farà? Si presterà a guidare un “governo Renzi senza Renzi” o saprà ritagliarsi una sua autonomia?

“Molto sta a lui. Dovrà decidere se assecondare fino in fondo l’ansia di riconquista del suo predecessore, o rompere gli schemi incaricandosi di avviare la ricucitura del tessuto di un Paese uscito lacerato da una vicenda lunga e sfibrante. Se si vuole ricucire, è evidente che superare Renzi non basta. Bisogna archiviare il renzismo e soprattutto i suoi metodi”.

Lei che spiegazione si è dato del risultato del referendum? E’ stato un voto contro Renzi? Contro i contenuti di merito della riforma costituzionale? E’ il vento della protesta che è arrivato anche da noi?

“Secondo me si è trattato della combinazione di tre fattori. Da un lato certamente l’opposizione alla politica del governo Renzi e la preoccupazione, molto diffusa, che alla lunga quell’esperienza potesse rappresentare non un elemento di stabilità ma un acceleratore di crisi”. 

Poi?

“In secondo luogo, e lo dice uno che non ha mai praticato il feticismo della Carta del ’47, credo sia stata percepita con fastidio una insostenibile leggerezza, una grande superficialità, da parte del fronte del Sì, nel maneggiare la legge fondamentale dello Stato. E ciò si è tradotto in un motivato giudizio negativo sui contenuti di merito della riforma”.

Infine?

“Infine, girando in lungo e in largo l’Italia ho percepito da parte delle persone un rinnovato bisogno di unità nazionale come antidoto necessario, anche se non sufficiente, di fronte alla crisi. Anche perché, lungi dall’affievolirsi, la crisi mondiale dall’economia si sta estendendo anche alle regole di base della convivenza civile. Gli strappi, le forzature, gli sbreghi cui abbiamo assistito durante la campagna elettorale non sono stati percepiti come simpatiche canagliate ma come ferite inferte a una nazione già lacerata dalle difficoltà economiche. La verità è che il 4 dicembre si è confermata una data cruciale per la storia della nostra terra”.

Perché, cos’altro era successo il 4 dicembre?

“Nel 63 avanti Cristo l’allora console Marco Tullio Cicerone chiuse i conti con i nemici della Repubblica, sventando la congiura di Catilina. Era il 4 dicembre. Due millenni dopo, nello stesso giorno, è accaduto qualcosa di vagamente simile. E’ una data evocativa”.

Perché dopo un risultato così inequivocabile, reso ancor più schiacciante dall’affluenza massiccia, il fronte del No non si è assunto la responsabilità delle conseguenze?

“Tanto per cominciare non esiste né è mai esistito un fronte politico del No. A opporsi alla riforma Renzi-Boschi è stato un variegato fronte costituzionale, eterogeneo e trasversale, che non ha mai avuto la pretesa, né ha mai coltivato l’ambizione di diventare uno schieramento politico. Non è mai esistito un fronte del No oltre i confini temporali della battaglia referendaria”.

Però ammetterà che il 40 per cento degli italiani che hanno votato Sì possono essere considerati in qualche modo elettorato renziano. 

“Neanche per sogno. Ridurre a una dimensione partitica una consultazione sulle regole costituzionali è stato il peccato originale dell’ex premier. Il fatto che consideri il Sì un suo personale bottino elettorale è solo la prosecuzione di quell’errore, che lo porterà di nuovo a schiantarsi”.

Questa insistenza sulla dimensione a-politica del voto referendario non è in qualche modo un rifiutare l’onere della vittoria? Avevate detto che dire No alla riforma Renzi-Boschi non significava dire No alle riforme in quanto tali ma solo respingere una riforma sbagliata e creare le premesse per una riforma seria e condivisa…

“L’impegno per una riforma vera non è venuto meno con il referendum, ma anzi è uscito rafforzato dal pronunciamento del popolo italiano. Abbiamo già depositato alcune proposte insieme a colleghi di diversi schieramenti, e sto preparando un pacchetto ulteriore che presenterò a breve. Per dare senso a una battaglia riformista che continua, inoltre, ho intenzione di fondare una ‘Lega 4 dicembre per una riforma condivisa’”.

Una nuova accozzaglia?

“Certo! Il referendum ha dimostrato che le Costituzioni le fanno le accozzaglie capaci di trovare una sintesi comune, e non l’arroganza di un piccolo gruppo autoreferenziale”.

Chi pensa di coinvolgere?

“Penso ovviamente al mio compagno di avventura letteraria Valerio Onida, ad altri costituzionalisti che hanno condiviso la nostra battaglia, come Luca Antonini e Mario Esposito, a opinion leader del calibro di Ferruccio de Bortoli, Sergio Romano, Antonio Polito, e penso anche a uomini e donne di orientamento culturale diverso dal mio, come Carlo Freccero, Bianca Berlinguer, che erano già venuti alla nostra festa del No a Matera”. 

Da qui al voto non crede che vi sarà comunque un dividendo politico da incassare dopo il referendum? E se il fronte del No è così frastagliato, chi lo incasserà?

“Non ci provi, non ci casco. Il referendum era sulla Costituzione e il risultato non appartiene a nessuno. Dopodiché è evidente che sulle macerie lasciate del renzismo si giocherà una contesa politica. C’è da ricostruire un Paese lacerato, senza pensare di poter ‘normalizzare’ la rabbia delle persone ma catalizzandola verso proposte costruttive. Vincerà chi saprà meglio interpretare questo bisogno”.

Partita avvincente. Con quali regole si giocherà?

“Si riferisce alla legge elettorale?”.

Esatto.

“E’ evidente che ci sono diverse opinioni in campo, ma non credo se ne possa parlare seriamente prima di conoscere la sentenza della Corte Costituzionale che dovrà dare indicazioni su diversi aspetti importanti”. 

Una scelta di fondo però spetta alla politica: maggioritario o proporzionale?

“Non credo sia il momento per fughe in avanti. Se posso dire una cosa, però, ritengo che il Paese in questo momento abbia bisogno di una legge che, al di là degli ovvi correttivi, assicuri rappresentativà. Il 4 dicembre i cittadini ci hanno detto innanzi tutto che vogliono scegliere, vogliono decidere, vogliono contare”. 

E la governabilità?

“Ci arrivo. La legge elettorale dovrà assicurare rappresentatività e agevolare la governabilità. Ma non può assicurarla a priori. Se si vuole governabilità certa, l’unica strada è agire sulla forma di governo, o separando legislativo ed esecutivo come in un sistema di tipo presidenziale, o almeno introducendo meccanismi di stabilizzazione come la sfiducia costruttiva. Il grande errore dell’Italicum è quello di voler raggiungere attraverso la legge elettorale risultati che presupporrebbero la modifica della forma di governo. E’ un non senso”. 

Questo per quanto riguarda le regole. Sui contenuti che mi dice? Quale sarà il terreno di confronto delle prossime politiche?

“Vi è un’agenda ineludibile che il terzo millennio sta imponendo alle comunità nazionali e sulla quale l’Italia sconta un drammatico deficit di politica. Accenno solo a tre temi, che ho ricordato anche al presidente Gentiloni in Senato. La crisi del sistema bancario. Il welfare. L’immigrazione”.

Su questi e su altri punti, riuscirà il centrodestra a darsi una piattaforma comune?

“Deve. Il centrodestra deve in qualche modo farsi carico anche dei danni causati dal renzismo. Renzi diceva di voler sbarrare la strada a Grillo, ma la verità è che ha spalancato la strada all’antipolitica. Ed è evidente che questa dinamica, innescata dal centrosinistra, rischia di travolgere anche il centrodestra”.

Chiarita la diagnosi, qual è dunque la risposta?

“Io credo che il centrodestra dovrebbe darsi una prospettiva gollista. Da un lato preoccuparsi di ricostruire un senso di unità nazionale, di ritessere una trama comune, a livello tanto sociale quanto politico e istituzionale. Nello stesso tempo deve essere di parte, senza ambiguità. Deve fare in modo che questo afflato unitario non diventi unanimismo, manovra, inciucio. La legislatura si era aperta su una prospettiva di collaborazione tra diversi, ma questa è stata bruciata prima dal siluramento di Enrico Letta, poi dal fallimento del patto del Nazareno. E’ evidente che non c’è un terzo tempo”.

Diciamoci la verità: il centrodestra riparte da una situazione di caos. Come è possibile fare ciò che lei dice in un tempo che, mese più o mese meno, sarà comunque molto breve?

“Innanzi tutto dimostrando di essere una comunità. In questo senso, l’avvio di un tavolo comune sulla legge elettorale è un buon segnale, è un metodo positivo che andrebbe esteso ad altri ambiti”.

Una comunità anarchica?

“No, bisogna che la comunità sia disciplinata da regole non più affidate al caso. Da questo punto di vista le primarie non esauriscono il tema ma sono senz’altro un aspetto rilevante”.

Sui contenuti?

“E’ necessario coltivare una tensione programmatica, condurre battaglie politiche. Solo così, peraltro, potremo trovare un comune denominatore tra sensibilità diverse, cosa che non si può fare inventando leader con la bacchetta magica per vederli appassire nel giro di qualche mese. Dobbiamo saper dire cosa faremo nei primi cento giorni di governo. Dobbiamo saper essere allo stesso tempo molto di parte e molto rassicuranti”.

La sua “Idea”, in tutto questo, che ruolo ha?

“Idea ha coltivato fin dall’inizio una vocazione unitaria, sia rispetto alla battaglia referendaria che nel cantiere del centrodestra. Credo che, a conti fatti, sia il segmento del centrodestra che ha i migliori rapporti con tutti gli altri e, in alcuni ambiti come ad esempio le unioni civili, ha saputo stimolare alleati dalle diverse sensibilità a condurre battaglie comuni”.

E adesso?

“Adesso è venuto il momento di far sì che questa tensione unitaria non sia l’attitudine di un club di amici. Deve diventare una piattaforma politica e darsi una sua concretezza. Insomma, è venuto il momento di iscriversi al campionato”.

La fase di riscaldamento fin qui com’è andata?

“L’intuizione di non puntare su una dimensione parlamentare, di palazzo, è stata giusta. Ora, dal punto di vista programmatico, Idea deve essere in grado di rappresentare una sintesi tra moderatismo e radicalità. Bisogna rendersi conto che di fronte a una lunga crisi che ha devastato il ceto medio, oggi i moderati sono i più arrabbiati di tutti. Bisogna sapere rappresentare questa rabbia senza cedimenti al politicamente corretto, e convogliarla in proposte di governo”.

Pensate in grande?

“Pensiamo che si debbano individuare i nodi dell’agenda del XXI secolo e su di essi avere il coraggio di sviluppare analisi nuove. Penso a temi già citati come l’immigrazione e il welfare, ma anche alla politica estera, all’Europa, alla sfida antropologica”.

Scendendo giù per li rami, come pensate di organizzarvi nella dimensione politica concreta?

“Bisogna continuare a radicarsi sui territori e da lì costruire la fotografia di una nuova classe dirigente fatta di persone che hanno una chiara collocazione ideale, coltivano una autentica passione politica, e finora pur avendo ben operato nelle istituzioni non sono ancora emerse”. 

Prossimi appuntamenti?

“Lo scorso fine settimana, a Orvieto, abbiamo consolidato una serie di unioni e cementato il rapporto con il mondo che si riconosce nel Family Day. Il 20 dicembre avremo a Roma una direzione nazionale alla quale parteciperanno anche molti dei comitati per il No nati attorno a Idea durante questa campagna referendaria. Dopo la pausa natalizia, inoltre, stringeremo un accordo federativo con circa venti nuove realtà in tutta Italia. Insomma, l’allenamento ferve”. 

E al campionato come ci arriverete?

“Bisognerà dare peso politico alla nostra posizione, da soli o insieme ad altri movimenti e forze politiche che lavorano su lunghezze d’onda assai prossime, addirittura in qualche caso sovrapposte. Poi, come tutto questo dovrà esprimersi alle prossime elezioni politiche, dipenderà ovviamente dal contesto istituzionale”.