Partiamo dal Libano per ripensare i nostri contingenti all’estero

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Partiamo dal Libano per ripensare i nostri contingenti all’estero

18 Aprile 2011

Dalla fine della guerra fredda sono trascorsi ormai vent’anni. I giganteschi eserciti europei, basati sulla leva e concepiti per affrontare nel loro territorio una grande guerra mondiale, sono stati riconvertiti in macchine burocratiche (ancora elefantiache) per fornire (striminziti e sempre più asfittici) contingenti alle spedizioni d’Oltremare dell’Occidente. Cucinate in tutte le salse giuridiche e ideologiche, in sostanza queste spedizioni si possono fare solo e soltanto a condizione di essere promosse e guidate dagli Stati Uniti. Dopo l’esperienza del fai-da-te europeo nell’ex-Jugoslavia, il fiasco anglofrancese in Libia, che sta ormai surclassando quello di Suez del 1956, è la controprova della strutturale incapacità degli europei a fare da soli.

Sotto l’ipocrisia dei borborigmi giuridici e diplomatici, emerge perciò che il sistema militare in cui TUTTI noi europei siamo inseriti, inclusi quelli che si credono ancora Grandi, è analogo al sistema militare romano in vigore dalle guerre puniche sino all’inizio delle guerre civili, cioè dal  III al I secolo a. C., quando Roma era ancora una Repubblica retta dal Senato e dal Popolo, ma stava già costruendo l’Impero universale. Questo sistema militare, giuridicamente basato su una miriade di trattati di alleanza (societas) bilaterali e su un’estensione arbitraria dell’antica Lega Latina, era molto simile alla NATO e alle attuali missioni internazionali. Infatti gli alleati (socii) italici, che fra città-stato e tribù montanare erano circa 150, fornivano ciascuno un contingente di 600/400 uomini: dieci di queste coorti, comandate da "prefetti" nazionali, erano poi riunite in unità equivalenti alle legioni comandate da tribuni romani, e tutte rigorosamente multietniche (mescolando coorti latine, umbre, picene, marsicane, sannite, irpine, lucane, apule, etrusche, campane), per prevenire manie di grandezza e magari ammutinamenti. La storia tramanda le gesta delle gloriose e fedelissime coorti "nazionali" di Tivoli, Palestrina, Camerino, all’epoca ancora città sovrane. Un tipico esercito consolare era composto da due legioni di cittadini romani e da due di alleati (dette "ali" perché quello era il loro posto in battaglia) più alcuni contingenti alleati "extra ordinem". La flotta, poi, era composta quasi esclusivamente dalle triremi fornite dalle città della Magna Grecia e della Sicilia: tanto che ancora dopo Augusto il nome ufficiale dei marinai era "socii navales" (gli alleati navali). Non compresi in questi eserciti c’erano i contingenti (eventuali) degli alleati d’Oltremare ("socii transmarini"), quelli che oggi chiameremmo i "coalizzati volenterosi". 

La macchina amministrativa che provvedeva a mobilitare i contingenti terrestri e navali degli alleati italici si chiamava "formula togatorum" ("specchio dei togati") ed era analoga alla "matricula imperii" che servì a Carlo V per arruolare i lanzichenecchi del Sacco di Roma e che rimase in vigore fino all’ultima farsesca mobilitazione del 1756 contro Federico II di Prussia. Pure la formula togatorum finì miseramente, ma in modo assai più drammatico: infatti mentre il Sacro Romano Impero era debole perché aveva struttura federale, la Societas o Symmachia romano-italica era un’alleanza egemonica. E questo tipo di alleanza, protratta a tempo illimitato, produce fatalmente assimilazione politica e richiesta di cooptazione delle élites periferiche nel sistema decisionale centrale. Andò così che gli italici prima furono coinvolti dalle varie fazioni romane nelle guerre civili aperte dalla questione agraria, e poi fatalmente si ribellarono, chiedendo o l’integrazione a pieno titolo oppure la distruzione di Roma (fu la "guerra degli alleati" o "sociale" del 90-89 a. C., che fece 300.000 morti su 7 milioni di abitanti e fu vinta ai punti dai romani grazie all’arruolamento degli schiavi e all’intervento dei frombolieri delle Baleari e dei cavalieri numidi. Il risultato fu che ai superstiti fu accordata sì, la piena cittadinanza romana, incluso il diritto di voto: ma di fatto quest’ultimo venne svuotato, ripartendo i nuovi cittadini fra le unità di voto preesistenti anziché crearne di nuove.)          

Nell 1999, al compimento dei suoi primi cinquant’anni, il Patto Atlantico è stato radicalmente trasformato da regionale e difensivo in globale ed offensivo; di fatto si basa sullo stesso principio della Symmachia romano-italica, cioè di "avere gli stessi nemici" (eosdem hostes habeto) della Potenza Egemone. Inoltre il Patto Atlantico è ormai la più longeva alleanza militare della storia dopo la citata Symmachia. Certo, a differenza di quest’ultima, il Patto Atlantico non è formalmente egemonico e si basa anzi sulla piena parità e sovranità dei membri. Eppure, visto in una prospettiva storica, è proprio il Patto, ben più che l’Unione Europea, a porre in questione la sovranità nazionale. Del futuro della sovranità nazionale e della sovranità popolare (due facce della stessa medaglia) in un mondo fatalmente imperiale finora è stato proibito parlare seriamente. Per tutti gli anni Novanta, le parole d’ordine sono stati europeismo e "patriottismo della Costituzione". Poi, di fronte ai segni sempre più evidenti di sfascio delle istituzioni e della società prodotti dalla sistematica demolizione della sovranità nazionale e popolare, gli stessi apprendisti stregoni hanno fatto genialmente ricorso alla marcetta de li berzajeri; al "Va Pensiero" contro il Vaffa…. L’unica forza politica che in qualche modo ha posto sul tavolo la questione della sovranità è stata la Lega: ma l’ha fatto ambiguamente, girandoci attorno, con una evidente povertà di pensiero, di linguaggio e di azione politica. Bossi come Asterix: il villaggio gallico che di fronte all’Impero sa soltanto biascicare "Sono Pazzi Questi Romani".

Ultimo segno di questa superficialità, che si traduce in autoemarginazione e irrilevanza politica, sono le due proposte parallele della Lega di ritrasformare l’esercito in milizia territoriale e di ritirare le nostre coorti dalle missioni internazionali, cominciando da quelle relative a crisi internazionali attualmente "congelate", ossia Libano e Kosovo.

Decisa nel settembre 2006 dal governo Prodi per iniziativa del ministro degli esteri D’Alema, la missione in Libano fu in realtà un ampliamento del mandato della Forza delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) deciso dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza. L’UNIFIL nacque nel 1978, ma nel 2006, dopo l’offensiva israeliana contro le milizie di Hezbollah che dal Libano meridionale bombardavano con razzi le città israeliane, fu decuplicata a 15.000 uomini con armamenti pesanti per garantire la smilitarizzazione della Linea Blu (una fascia di sicurezza creata dall’ONU nel 2000). L’Italia, che ha avuto a lungo il comando delle forze terrestri della missione (col generale Claudio Graziano), vi mantiene circa 2.400 uomini, pari a un sesto della forza attuale dell’UNIFIL (equivalenti sono pure i contingenti francese e tedesco e tra i minori spiccano mille cinesi). La missione è stata criticata, soprattutto da parte filo-israeliana per non vigilare abbastanza sulle attività militari di Hezbollah, ma è stata pure inficiata dalle riserve di alcuni paesi partecipanti circa le dichiarazioni tedesche e francesi ritenute troppo sbilanciate a favore di Israele. Nel 2007 l’UNIFIL ha avuto 6 caduti (colombiani e spagnoli) in un attentato qaedista e nel 2010 i francesi ne hanno combinato una delle loro con esercitazioni non coordinate e stupide brutalità contro i civili, subendo poi l’umiliazione di essere disarmati e presi a pedate dagli abitanti dei villaggi.

Siccome per fortuna cca nisciune è fesso, la confortante impressione che ricavo dalle cronache delle missioni internazionali è che, perlomeno, sul terreno noi siamo proprio dei draghi a sceglierci le buche migliori: ad esempio è toccato al battaglione indonesiano di UNIFIL finire in mezzo ai sanguinosi scontri del 3 agosto 2010 tra israeliani e regolari libanesi. Gli indonesiani (un battaglione e una corvetta) se ne sono poi andati, ma se ci sfilassimo noi, l’intera missione crollerebbe. E proprio nel mezzo delle apprensioni israeliane e libanesi per gli sviluppi della situazione interna in Egitto e in Siria… Nel 209 a. C., quando gli alleati italici defezionavano in massa per passare con Annibale (lo seguirono poi in Africa e a Zama, nel 201, tennero il centro dello schieramento cartaginese), dodici colonie latine, quelle situate poco sotto il Po, si chiamarono fuori rifiutando di fornire il contingente. Lì per lì i romani dovettero abbozzare: ma, vinta la seconda guerra punica, regolarono i conti, punendo le colonie ribelli con la confisca di un terzo delle terre a favore dei legionari congedati e con l’obbligo di fornire un contingente doppio (due coorti invece di una), mandato a morire di guerriglia e malattie nei presidi interni della Sardegna.    

Sistemata la Lega, ne ho pure per il Feldmaresciallo von Buttiglionen, la cui esibizione muscolare a Porta a Porta mi rammentava la splendida pagina di Tolstoi (che piacque tanto a Croce e a Sciascia) sul geniale piano di battaglia esposto alla vigilia di Austerlitz dal generale austriaco Kalckreuth. Voghlia invatti Euer Excellenz konziderare che abbiamo in giro in 24 missioni 8.300 militari, pari a 2 brigate e mezzo su undici. Con una rotazione quadrimestrale, tutte le unità operative e un quarto degli effettivi dell’esercito (25.000 uomini) sono in missione da vent’anni. L’usura del personale e dei mezzi è ormai estrema, e con una spesa inferiore all’un per cento del PIL (e pari a metà di quella francese) non possiamo permetterci una adeguata ricostituzione delle forze. Le nostre forze armate semplicemente si stanno poco a poco disfacendo. Ma lo stesso vale pure per le altre coorti europee: L’impressione, di fronte al rallentamento delle operazioni in Libia, è che semplicemente abbiano finito le munizioni. Ma neppure i legionari stanno meglio. Essendo stati mandati dalla parte sbagliata, adesso non vanno più da nessuna parte: coreani, iraniani, cinesi e russi sanno bene come incassare i dividendi di due guerre sprecate per dare retta ai cristiani rinati e ai trotzkisti di destra.

Rimedi non ce n’ho. Anzi uno, ma impossibile: guardare in faccia la realtà, ammettere che è sconfortante, che non possiamo cambiarla, ma che un paese unito e serio potrebbe almeno limitare i danni, invece di massimizzarli starnazzando ogni giorno da capo appresso ai quaqquaraquà di ogni mestiere e di ogni colore. In vent’anni di inconcludenti missioni all’estero decise sulla nostra testa e a cui abbiamo partecipato obtorto collo solo perché non potevano dire di no (perché se fosse dipeso da noi certo non si sarebbero fatte), abbiamo accumulato 116 caduti militari, di cui 74 per azioni ostili (28 in Afghanistan, 25 in Iraq, 11 in Somalia e 10 nei Balcani), 34 per incidenti, 6 per malattia e 2 per suicidio. Tutto sommato pochi, a paragone dei 5.888 americani caduti in dieci anni solo in Iraq e Afghanistan, dei 542 inglesi e dei 154 canadesi: ma i nostri 70 in queste missioni sono al quarto posto, prima dei 53 francesi, 52 tedeschi, 48 polacchi, 47 danesi e 42 spagnoli. Senza contare i giornalisti e i cooperanti, né i 181 militari e civili reduci dalle aree in cui sono state usate armi con uranio impoverito e deceduti negli anni seguenti per tumori (su un totale di 2.530 persone, a cui, dopo anni di polemiche e di azioni giudiziarie, con DPR 3 marzo 2009 n. 37 e 15 marzo 2010 n. 66 è stato riconosciuto il diritto al risarcimento).